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Divenire

Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e sul postumano

LA RIVISTA

Presentazione

Divenire è il titolo di una serie di volumi incentrati sull'interazione tra lo sviluppo vertiginoso della tecnica e l'evoluzione biologica dell'uomo e delle altre specie, ovvero votati allo studio dei rapporti tra la tecnosfera e la biosfera. Gli autori, provenienti da diverse aree disciplinari e orientamenti ideologici, sviluppano la propria analisi con occhio attento al probabile esito finale di queste mutazioni casuali o pianificate: il postumano. Sono dunque studi che sul piano temporale spaziano nel presente, nel passato e nel futuro, mentre sul piano della prospettiva disciplinare sono aperti a idee e metodi provenienti da diverse aree di ricerca, che vanno dalle scienze sociali alle scienze naturali, dalla filosofia all'ingegneria, dal diritto alla critica letteraria.

Ogni volume ha quattro sezioni. In Attualità compaiono studi attinenti a problematiche metatecniche del presente. Genealogia è dedicata a studi storici sui precursori delle attuali tendenze transumanistiche, futuristiche, prometeiche — dunque al passato della metatecnica. In Futurologia trovano spazio esplorazioni ipotetiche del futuro, da parte di futurologi e scrittori di fantascienza. Libreria è dedicata ad analisi critiche di libri su tecnoscienza, postumano, transumanesimo.
I volumi pubblicati finora (ora tutti leggibili in questo sito):

  1. D1. Bioetica e tecnica
  2. D2. Transumanismo e società
  3. D3. Speciale futurismo
  4. D4. Il superamento dell'umanismo
  5. D5. Intelligenza artificiale e robotica

Divenire 5 (2012) è interamente dedicato all'Intelligenza Artificiale (IA).

Intelligenze artificiose (Stefano Vaj) sostiene che il tema dell'automa (esecuzione di programmi antropomorfi o zoomorfi su piattaforma diversa da un cervello biologico) resta tuttora circondato da un vasto alone di misticismo: quando non viene negata in linea di principio la fattibilità dell'IA, ne viene esagerata escatologicamente la portata. (english version)

La maschera dell'intelligenza artificiale (Salvatore Rampone) indaga gli equivoci concettuali sottostanti alla domanda se una macchina abbia intelligenza o possa pensare e spiega perché l'IA debba nascondersi sotto la maschera del Soft computing.

Il problema filosofico dell'IA forte e le prospettive future (Domenico Dodaro) Analizza il tema della coscienza  semantica mettendo in luce i suoi  aspetti corporei e considera la possibilità di implementarli in sistemi artificiali. Sono valutati sia i limiti tecnologici e computazionali della riproduzione artificiale della coscienza (intesa come una facoltà del vivente) sia i programmi di ricerca più fecondi al fine di arginarli.

Cervelli artificiali? (Emanuele Ratti) espone il progetto di ricerca forse più ardito nel campo dell'IA che emula funzioni e organi biologici: il cervello artificiale di Hugo de Garis, introducendo concetti chiave di questo settore disciplinare come rete neurale e algoritmo genetico.

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Presentazione

Automi e lavoratori. Per una sociologia dell'intelligenza artificiale (Riccardo Campa) sposta l'attenzione sull'impatto economico e sociale della computerizzazione e della robotizzazione. Quali effetti sull'occupazione e quali correttivi per massimizzare i benefici e minimizzare gli effetti indesiderati? Proiettando il tema nel futuro, vengono analizzati i possibili scenari, in dipendenza di diverse politiche (o non-politiche) dello sviluppo tecnologico.

Il nostro cervello cinese (Danilo Campanella) riporta l'origine dei calcolatori moderni all'antica Cina. Utilizzando matematica, teologia e misticismo, i cinesi elaborarono i primi rudimenti del linguaggio binario, poi rubato dagli occidentali.

Alan Turing: uno spirito transumanista (Domenico Dodaro) Sono esposte le ragioni per cui Turing può essere definito un pensatore transumanista. Il matematico inglese è in genere descritto solo come padre dell'IA tradizionalmente intesa. L'analisi dell'autore dimostra invece la sua vicinanza ai temi delle "nuove scienze cognitive" e della computazione complessa (o ipercomputazione).

Passato, presente e futuro dell'Intelligenza Artificiale (Bruno Lenzi). L'articolo mostra, su un arco temporale molto ampio, fallimenti, riuscite, pericoli e scoperte delle scienze cognitive, sottolineando che l'IA non è questione solo tecnico-scientifica, racchiude germogli e frutti maturi in ogni area del sapere, e potrebbe essere molto diversa dall'intelligenza umana.

Post-embodied AI (Ben Goertzel). L'autore, uno dei principali sostenitori dell'AI forte, analizza la questione filosofica dell'embodiment: una intelligenza artificiale forte (capace di risolvere problemi in domini nuovi, di comunicare spontaneamente, di elaborare strategie nuove) deve necessariamente avere un body?

Nanotecnologia: dalla materia alle macchine pensanti (Ugo Spezza) spiega questo ramo della scienza applicata che progetta nanomacchine e nanomateriali in molteplici settori di ricerca: biologia molecolare, chimica, meccanica, elettronica ed informatica. L'articolo presenta le applicazioni già esistenti e le fantastiche potenzialità progettuali, dai nanobot per il settore medico ai neuroni artificiali.

Verso l'Intelligenza artificiale generale (Gabriele Rossi) introduce la Matematica dei Modelli di Riferimento degli iLabs ed esplora i potenziali vantaggi di questa prospettiva alla luce di alcune questioni teoriche di fondo che pervadono tutta la storia della disciplina.

Ich bin ein Singularitarian (Giuseppe Vatinno) è una recensione di La singolarità è vicina di Ray Kurzweil.

NUMERI DELLA RIVISTA

Divenire 1. Bioetica e tecnica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 2. Transumanismo e società

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 3. Speciale futurismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 4. Il superamento dell'umanismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 5. Intelligenza artificiale e robotica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

RICERCHE

1

2

3

4

CHI SIAMO

Comitato scientifico

Riccardo Campa
Docente di metodologia delle scienze sociali all'Università Jagiellonica di Cracovia
Patrizia Cioffi
Docente di neurochirurgia all'Università di Firenze
Amara Graps
Ricercatrice di astronomia all'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario
James Hughes
Docente di sociologia medica al Trinity College del Connecticut
Giuseppe Lucchini
Docente di statistica medica all'Università di Brescia
Alberto Masala
Ricercatore di filosofia all'Università La Sorbonne (Paris IV)
Giulio Prisco
Vice-presidente della World Transhumanist Association
Salvatore Rampone
Docente di Sistemi di elaborazione delle informazioni all'Università degli studi del Sannio
Stefan Lorenz Sorgner
Docente di filosofia all'Università di Erfurt
Stefano Sutti
Docente di diritto delle nuove tecnologie all'Università di Padova
Natasha Vita-More
Fondatrice e direttrice del Transhumanist Arts & Culture H+ Labs

Ait

L'AIT (Associazione Italiana Transumanisti) è un'organizzazione senza scopo di lucro con la missione di promuovere, in ambito culturale, sociale e politico, le tecnologie di potenziamento dell'essere umano.

Fondata nel 2004, è stata formalizzata mediante atto pubblico nel 2006 ed ha avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento.

Sede legale AIT: via Montenapoleone 8, 20121 Milano

Sito internet AIT: www.transumanisti.it (>)

Pubblica questa rivista: Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano

Curatore: Riccardo Campa

Segretaria di redazione: Nicoletta Barbaglia

Art director: Emmanuele Pilia (>)

Gruppo di Divenire su Facebook: (>)

Contatti

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Le radici pagane della rivoluzione biopolitica

Autore: Riccardo Campa

da: Divenire 4, Genealogia () | pdf | stampa

1. Due parole impronunciabili

Ci sono due parole che sono ormai divenute impronunciabili: eugenetica e superuomo. Sono i due pilastri, il mezzo e il fine, di un’annunciata – e forse già in corso – rivoluzione biopolitica che trova in Friedrich Nietzsche il suo principale profeta e teorico. Altro nome, quello di Nietzsche, che si esita a pronunciare nell’ambito del dibattito bioetico, nonostante la sua attualità e pertinenza. Il motivo della messa al bando di questi termini è noto e non necessita di troppe analisi: rievocano il nazismo. Ogni persona “benpensante” o interessata ad apparire “perbene”, per ragioni di carriera o di quieto vivere, si guarda bene dal pronunciare queste parole, se non per prendere le distanze dai concetti che esprimono, mostrando perlopiù indignazione, sconcerto, riprovazione – autentica o recitata. 1

Eppure, i concetti e le “cose” (i fenomeni, i processi) che stanno dietro questi due termini impronunciabili sono ancora una presenza ingombrante nella nostra vita culturale e sociale. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che sono stati prontamente sostituiti da altri termini non compromessi con l’avventura nazista. Non si parla più di eugenetica, ma di potenziamento umano (human enhancement). Non si parla più di superuomo, ma di transumano o postumano (transhuman, posthuman). Naturalmente, questo accade anche con altre parole, nella medesima condizione. Non pronunciamo più la parola “razza”, ma parliamo spesso e volentieri di “gruppo etnico” 2 . Non esistono più le “guerre”, ma le “operazioni di polizia internazionale” (le nostre) e le “offensive terroristiche” (quelle dei nemici).

Non è per mera curiosità sociolinguistica che sollevo il problema, e nemmeno perché io tenga particolarmente al recupero di questi termini. La questione che mi preme è un’altra ed è di natura storiografica e genealogica: se questi termini sono autentiche mostruosità, tanto da essere ritenuti impronunciabili, perché li abbiamo prontamente sostituiti e non semplicemente obliterati, cancellati, dimenticati?

Il termine “fonografo” è scomparso dall’uso, perché è scomparsa la “cosa” a cui si riferiva. Questo non è però vero per i nostri due termini. Dunque, il problema va spostato dal concetto alla cosa. Possiamo infatti chiederci: perché tali “cose” esistono ancora nella realtà e nei nostri discorsi, nonostante il tabù che le caratterizza? È questa la domanda a cui vogliamo dare risposta.

Vediamo allora di mettere in ordine le idee. Il legame dei due concetti con il nazionalsocialismo hitleriano è solo un accidente storico. Di eugenetica e superuomo – fino alla seconda guerra mondiale – hanno parlato i fascisti come i comunisti, i liberali come i democratici, gli atei come i cristiani. 3 Ne hanno parlato tutti, perché il problema della “rivoluzione biopolitica” era (ed è) giunto a maturazione nella coscienza europea. I germi di questa rivoluzione – come mostreremo – sono nelle radici culturali pagane dell’Europa. 4 Agli albori dell’età contemporanea, la componente pagana della cultura europea, dopo millenni di lotta incessante, ha preso il sopravvento sulla componente giudeo-cristiana (curiosamente, anche grazie al contributo di tanti intellettuali europei di origine ebraica). Una serie di eventi storici – l’Umanesimo, il Rinascimento, la rivoluzione scientifica, la rivoluzione industriale, le rivoluzioni politiche – hanno dato all’uomo gli strumenti etici e tecnici per decidere il proprio destino di specie, per prendere per mano la propria evoluzione, in misura che non trova precedenti nel passato. La ragione per cui il passo falso del nazismo non è ragione sufficiente per mettere da parte la rivoluzione biopolitica è che essa è il risultato finale di almeno tremila anni di storia dell’Occidente e non delle elezioni vinte dallo NSDAP nel 1933. La catastrofe della seconda guerra mondiale ha prodotto quella che sembra una pausa di riflessione, più che un cambio di rotta. Altro non poteva essere.

Vediamo allora di analizzare in dettaglio quella potente forza storica che, riemergendo inesorabilmente, ci spinge con forza crescente in direzione di una rivoluzione biopolitica.

2. Atene e Gerusalemme

La cultura europea si è retta per secoli e continua a reggersi prevalentemente su due gambe, due tradizioni, due radici culturali: quella greco-romana e quella giudeo-cristiana. Per dirla con le parole di Tertulliano, alla base della cultura europea ci sono: «Atene e Gerusalemme, l’Accademia e la Chiesa» – le quali, sempre secondo il Padre della Chiesa, non avrebbero molto in comune. 5 Punto su cui concordava l’avversario Celso, per il quale la filosofia pagana era «la ragione», mentre la fede cristiana era la «negazione della ragione». 6 Dunque, la nostra cultura sarebbe affetta da un sorta di schizofrenia congenita.

Nonostante i ripetuti tentativi di conciliazione, resta innegabile che i conflitti tra queste due visioni del mondo sono stati continui e laceranti. Luciano Pellicani rileva infatti che «la tradizione religiosa giudaica e la tradizione filosofica greca sono quanto di più antinomico si possa immaginare, essendo la prima interamente dominata dalla fede e dal dogma e la seconda altrettanto interamente dominata – quanto meno nelle sue punte più alte – dalla ragione e dal libero esame». 7

Il conflitto si palesò sin dal primo momento in cui le due tradizioni vennero a contatto. Sempre Pellicani ricorda che «il cristiano Tertulliano e il pagano Celso convenivano su un punto: che nel seno dell’Impero era in atto una vera e propria guerra culturale fra Atene e Gerusalemme. Ed entrambi erano fermamente convinti che la conciliazione fra la filosofia greca e la religione cristiana era impensabile, poiché le verità dell’una non potevano non apparire follie per l’altra; e viceversa». 8

Nelle Sacre Scritture – tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento – si prescinde infatti completamente dall’argomentazione razionale, elemento centrale del metodo scientifico elaborato dai Greci. Ma le antinomie non riguardano solo l’approccio alla conoscenza. Nelle due tradizioni si notano profonde differenze nei tre ordini fondamentali della vita sociale e culturale: l’ordine mitico-religioso, l’ordine etico-politico, l’ordine tecnico-scientifico. Detto in una formula: oltre ad essere fedele alla ragione, la tradizione greco-romana è anche “fedele alla Terra”, mentre la tradizione giudeo-cristiana sembra piuttosto “fedele al Cielo”. Le scelte nei tre ordini riflettono, in varia misura, anche questa filosofia di fondo.

Ed ecco l’ipotesi centrale di questo scritto: i due diversi ed antitetici approcci alla spiritualità, alla politica e alla conoscenza che hanno caratterizzato l’epoca antica sono ancora alla base dei diversi modi di pensare e agire che confliggono nell’epoca contemporanea, anche se di ciò non siamo sempre del tutto consapevoli. In particolar modo, questa pressione del passato ci pare evidente in relazione allo sviluppo delle scienze biomediche e del correlato dibattito bioetico.

Oggi la Chiesa cattolica e i partiti conservatori insistono sul fatto che le radici dell’Europa sono cristiane. Insistono anche ossessivamente sul fatto che c’è un’unica bioetica “vera” ed è quella cristiana. Detta bioetica proibisce o limita fortemente un numero elevato di pratiche biomediche (aborto, eutanasia, eugenetica, procreazione artificiale, fecondazione eterologa, terapie geniche, cure con staminali embrionali, modifica della linea germinale, ecc.). Ma, allora, come si spiega la rivoluzione biopolitica in atto? Se è in atto una rivoluzione, è plausibile che ci sia un’altra irresistibile forza etica e spirituale che spinge in quella direzione.

Naturalmente i cristiani respingono questa tesi, ritenendo di avere il monopolio della spiritualità. Sostengono infatti che è Mammona, l’interesse, il denaro a spingere in quella direzione. Ma che si tratti di una lettura parziale e di comodo è piuttosto evidente. Anche l’aspetto “commerciale” esige una spiegazione. Perché ci sono tanti acquirenti di soluzioni biotecnologiche? Perché si vogliono figli sani e non malati? Perché si vuole rallentare il proprio invecchiamento? Perché si affrontano con mezzi tecnici le malattie e le menomazioni? Perché si usano rimedi farmacologici per agire sulla propria psiche? Perché si cerca di migliorare innanzitutto questo mondo, la propria esistenza terrena, il proprio corpo, e si guarda con timore alla morte?

«Perché tutto questo è in vendita»: non è una risposta soddisfacente. Ci sono migliaia di prodotti che sono stati proposti sul mercato e poi ritirati perché non hanno suscitato sufficiente interesse.

Qualcuno risponde semplicemente: perché è il buon senso che ci dice che è preferibile essere sani, intelligenti, belli, forti, giovani e longevi, piuttosto che malati, stupidi, brutti, deboli, vecchi e moribondi. C’è qualcosa di vero in questo. Ma nemmeno questa è una risposta completa. Se la tradizione mistica giudeo-cristiana, che qualcuno vorrebbe egemonica in Europa e America, ci trasmette un messaggio del tutto diverso – volto a rivalutare la sofferenza e la carità in vista di un premio post mortem – donde deriva questo buon senso terrestre, questa etica alternativa?

Basta scavare ancora più indietro nella tradizione occidentale e si scopre che le radici della rivoluzione biopolitica sono proprio nel paganesimo europeo. Una tradizione millenaria che il cristianesimo ha inizialmente cercato di estirpare e, poi, nel Basso Medioevo e nel Rinascimento, di riassorbire parzialmente, nella speranza di poterne trarre qualche frutto. Sennonché, nella Modernità, la tradizione pagana è sfuggita del tutto al controllo della Chiesa ed è riemersa prepotentemente, diventando di nuovo egemonica. Se non nelle forme, almeno nei contenuti più profondi e autentici.

Dunque, la rivoluzione biopolitica (laica) e la reazione bioetica (cattolica) traggono linfa vitale da radici antiche. La forza spirituale che spinge e sostiene lo sviluppo biotecnologico mantiene un legame ontogenetico privilegiato con il paganesimo, mentre la forza spirituale che si oppone al processo con gli strumenti della bioetica si rapporta alla tradizione giudaica. Ma si badi che il Cristianesimo odierno rappresenta addirittura una radicalizzazione della visione giudaica, giacché le altre due religioni monoteistiche che si innestano sullo stesso ceppo culturale – Ebraismo e Islam – sono in realtà più aperte e possibiliste nei confronti delle biotecnologie, rispetto al culto fondato da San Paolo. E ciò accade anche per via della ellenizzazione di queste tradizioni, della vittoria del partito erodiano sul partito zelota.

Mettiamo in chiaro che non è nostra intenzione svalutare in toto la cultura giudeo-cristiana, in rapporto a quella greco-romana. In altri ambiti della cultura, in particolare nell’etica dei rapporti interpersonali, si sono registrati contributi importanti e originali nell’ambito delle culture semitiche monoteistiche. 9 Né qui si vuole in qualche modo associare troppo strettamente la “cultura” alla “razza” (o all’etnia). Questo è improponibile, ma non perché violerebbe la regola del “politicamente corretto”. La scienza cerca e afferma la verità, non le affermazioni politicamente corrette (altrimenti dovremmo dare ragione al Cardinale Bellarmino nella disputa con Galileo). La questione è che una simile associazione si scontra con dati empirici che non possono essere ignorati. Il numero di scienziati e filosofi di origine ebraica che hanno prodotto scoperte e teorie scientifiche di prim’ordine, soprattutto negli ultimi due secoli, è elevatissimo. E questi risultati non possono essere messi in relazione diretta e inequivocabile né alla religione (dato che Marx, Einstein, Freud, Durkheim, ecc., erano apostati), né alla genetica. La scienza viene fondata nell’antichità dai Greci, che sono un popolo di origine indoeuropea, sviluppata nel medioevo da Arabi e Cinesi, rivitalizzata in età moderna dagli Europei delle diverse nazioni, nonché arricchita da numerosi e preziosi contributi di scienziati di origine ebraica in età contemporanea. La genetica sembra dunque giocare un ruolo non decisivo, anche se future ricerche biologiche potranno dirci di più su questo argomento.

Il discorso che stiamo facendo in rapporto alla genesi della scienza e dell’etica del potenziamento umano è dunque più sottile e filosofico. Ci sono idee sorte migliaia di anni fa in seno alla cultura europea pagana che portano in una precisa direzione e idee sorte migliaia di anni fa in seno alla cultura mediorientale monoteistica che portano in un’altra direzione. Questi “memi” circolano liberamente nella cultura odierna. Perciò, può accadere benissimo che, oggi, interiorizzi la visione etica di origine giudaica chi ha un “pedigree” perfettamente indoeuropeo o caucasico; o, viceversa, che intellettuali con ascendenti ebraici pensino in modo assolutamente “greco”.

Per sostenere la nostra tesi faremo riferimento, seppur in modo necessariamente sommario e non sistematico, a mitologie, dottrine politiche e scoperte scientifiche di quelle civiltà antiche, mettendole in relazione con la situazione presente. Siamo consci del fatto che le civiltà millenarie sono fenomeni storico-sociali di una complessità inaudita e, perciò, ogni tentativo di coglierne lo “spirito” complessivo potrebbe apparire un’ingenuità. All’interno di una stessa società, nel corso della storia, cambiano i costumi, le regole etiche, le conoscenze, le istituzioni, la lingua, la cultura. Faremo dunque attenzione a distinguere i periodi. Ma, persino nello stesso periodo storico e nella stessa comunità, vi sono individui e gruppi che hanno idee e stili di vita diversi e spesso in contrasto. D’altronde, chi critica questi tentativi di cogliere sommariamente lo spirito di un popolo, di una civiltà, di un’era, di un periodo, molto spesso non si fa scrupolo di parlare dei «valori universali dell’uomo», il che significa – se ben ci si pensa – avere la pretesa di cogliere lo spirito complessivo di tutti i popoli, di tutte le civiltà, di tutte le ere, di tutti i periodi. Il nostro obiettivo, seppur similmente improbo, è tutto sommato più modesto.

3. L’ordine mitico-religioso: la divinità della tecnica

Per farsi un’idea degli orizzonti valoriali e normativi della civiltà greca antica, risultano fonti preziose i miti, non meno delle opere filosofiche e scientifiche. I miti greci insistono molto sul tema della tecnica, in particolare quella siderurgica e meccanica. Insistono sulla divinità della tecnica. Ma non lo fanno in modo ingenuo. Entra nel discorso, infatti, anche l’ambivalenza morale dell’invenzione, ovvero, l’argomento della tecnologia come arma a doppio taglio, dove una lama è benefica perché rivolta verso i nemici dell’uomo e la seconda malefica perché rivolta verso l’uomo stesso. Questo per dire che i moderati, quelli che salomonicamente resuscitano l’argomento dei pro e dei contro della tecnica nelle dispute tra tecnofili e tecnofobi, saranno anche saggi, ma di certo non sono originali.

Sulla questione della tecnica, appare fonte di basilare importanza innanzitutto il mito di Prometeo. Ci ricorda infatti Umberto Galimberti che «la tecnica si salda, fin dalle sue origini, con la volontà di potenza, e il sapere che dalla tecnica scaturisce è sapere che può. Il detto baconiano scientia est potentia è iscritto nella natura stessa del sapere tecnico, e la cosa non sfugge a Zeus che per questo incatena Prometeo». 10

3.1. Prometeo, il padre nostro

Prometeo è una figura che si distingue dalle altre divinità del mondo classico per avere instaurato un rapporto privilegiato con l’uomo. Si tratta di un personaggio antichissimo, anteriore a Zeus e agli dèi olimpici. Questo non stupisce, dal momento che la nascita delle tecniche precede quella delle religioni. Prometeo intrattiene un rapporto speciale con gli uomini, perché ne è creatore, maestro e protettore. È figlio della ninfa Climene e fratello di Epimeteo, Atlante e Menezio. Meno certa la paternità, attribuita da alcuni al Titano Giapeto e da altri al Titano Eurimedonte. 11

Il mito di Prometeo è piuttosto noto. Quando Zeus si ribella a Crono e inizia la guerra contro i titani, Prometeo si schiera con gli dèi dell’Olimpo e ne favorisce la vittoria. I rapporti con Zeus rimangono però sempre tesi per due ragioni: innanzitutto perché Prometeo dimostra un’intelligenza superiore ad ogni altro dio e quindi suscita i timori e le gelosie dello stesso Zeus; in secondo luogo perché Prometeo difende strenuamente gli interessi degli uomini contro quelli di Zeus. Come accennato, sarebbe stato lo stesso Prometeo a creare l’uomo, plasmandolo con l’argilla. E, dopo il fallimento del fratello Epimeteo nel distribuire le facoltà, avrebbe insegnato al genere umano anche l’arte del vivere civile ed i segreti della tecnologia – sebbene tali conoscenze siano in realtà di seconda mano, dovendo essere ricondotte in primis ad una dea: Atena. Tra l’altro, Atena compartecipa alla creazione, immettendo la coscienza nei corpi creati da Prometeo.

Così Graves si esprime sul titano: «Prometeo era… il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli a sua volta insegnò ai mortali» 12 .

Nella lotta tra gli uomini e gli dèi, Prometeo è sempre dalla parte delle sue creature. Quando Zeus decide di sterminare la razza umana con i suoi fulmini, è Prometeo che lo induce a cambiare idea. Quando Zeus provoca il diluvio universale, Prometeo non può impedirlo, ma riesce almeno ad avvertire Deucalione che si mette in salvo garantendo la prosecuzione del genere umano. Ancora una volta, è il tentativo di favorire gli uomini che mette Prometeo nei guai. Dovendosi stabilire quale parte di un bue sacrificato tocchi agli uomini e quale agli dèi, Prometeo cerca di ingannare Zeus dando al dio le ossa e ai mortali la carne.

Per punizione Zeus nega agli uomini il fuoco, obbligandoli così a mangiare carne cruda. Ma Prometeo ruba il fuoco dall’Olimpo e ne fa dono alle sue creature. Sempre più adirato, Zeus si vendica mandando la donna fra gli uomini (Pandora, la prima donna, reca con se un vaso contenente tutte le disgrazie del genere umano) e incatenando Prometeo al Caucaso. Non contento gli incita contro un’aquila che gli divora il fegato. Prometeo è immortale e quindi il fegato divorato di giorno gli ricresce in eguale misura di notte. La condanna doveva essere per l’eternità, ma Ercole, l’uomo che diventa dio in virtù delle famose fatiche, corre in aiuto del dio più vicino all’uomo e uccide l’aquila. Infine, il centauro Chirone decide espiare le colpe del titano rinunciando all’immortalità per sottrarsi alle sofferenze provocate da una dolorosa ed inguaribile ferita infertagli da Ercole, e Zeus accetta di liberare Prometeo. Secondo un’altra versione, sulla decisione di Zeus influisce la capitolazione di Epimeteo, il quale accetta in sposa la bella ma stolta Pandora.

Numerose interpretazioni di questo mito sono state proposte dagli specialisti di cultura classica e non intendiamo addentrarci in una dettagliata discussione delle stesse. Ci limiteremo alle idee su cui c’è ampio accordo.

Zeus, dio del Cielo e della luce, garante del destino del mondo, rappresenta in forma mitica le forze della natura, in particolar modo la natura celeste – con le sue piogge e i suoi fulmini, con i suoi giorni e le sue notti, con le stelle fisse e i suoi moti planetari – che l’uomo può solo subire o osservare, ma non cambiare. Prometeo rappresenta invece la forza dell’intelligenza, dell’invenzione, della precognizione, di cui anche l’uomo è partecipe. La lotta tra Zeus e Prometeo può anche essere letta come una rappresentazione mitica dell’eterno tentativo dell’uomo di sottrarsi, per mezzo della scienza e della tecnica, alle minacce e alle limitazioni di una natura spesso ostile o comunque disinteressata alle sorti dell’uomo. In altre parole, era chiaro ai creatori di questo mito che la scienza e la tecnica sono ciò di quanto più vicino all’uomo (e quindi di “umano”) vi possa essere. Anzi, in questo mito greco, come nei lavori scientifici dei moderni paleoantropologi, la tecnica è trattata come l’essenza stessa dell’uomo. Si inizia a parlare di “homo” (homo habilis) quando appare la prima rudimentale pietra scheggiata, il primo strumento tecnico.

Dunque, il mito contiene una valutazione positiva delle tecniche, ma anche la consapevolezza che esse sono invise alla natura deificata, dal momento che danno troppo potere agli uomini, facendoli diventare insidiosi. C’è un ordine stabilito, un destino, di cui il dio supremo, Zeus, è garante. Secondo questo ordine, gli uomini sono dèi imperfetti: hanno la coscienza al pari degli dèi olimpici, ma non l’immortalità. Per questo, a differenza degli dèi, mancano anche della felicità, della beatitudine. Chi cerca di rompere l’ordine, che sia uomo, titano o dio, viene punito dal Dio del Cielo. Per fare solo un esempio, Asclepio, dio della medicina, quando inizia a resuscitare i morti viene fulminato da Zeus. Nella mentalità greca, la tecnica è dunque un’arma il cui uso è tanto necessario quanto rischioso. L’uomo la usa, portando la sua sfida al Cielo, ma correndo il rischio di essere punito.

Si notano certe somiglianze tra questi racconti mitici e quelli biblici. Zeus (deus, dio) che si adira e punisce gli uomini con il diluvio universale, Atena che – come il serpente – aiuta gli uomini ad acquisire la coscienza. Gli uomini che conquistano l’immortalità, per l’intervento di Asclepio, e poi la perdono. E si notano anche similitudini con il cristianesimo. Bacco, figlio di Dio, trasfigurato in agnello o capretto da Ermete, trasforma l’acqua in vino (come la vite, del resto), viaggia in Egitto, afferma il suo culto in tutto il mondo e, dopo la morte, ascende in Cielo, e siede alla destra del Padre. 13

Ciò non stupisce. I culti religiosi e i miti non sono inventati di sana pianta, ma sono in certa misura interpretazioni e rappresentazioni di una realtà percepita. Di qui le similitudini. Il Dio Padre è il Cielo in Europa, come in Cina, come nelle civiltà precolombiane in America. E suo figlio è il Sole, la cui nascita è celebrata un po’ ovunque il 25 dicembre, il solstizio d’inverno, ovvero dal momento in cui la giornata inizia a crescere. E in molte religioni la vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre, è festeggiata in marzo, all’inizio della primavera, in occasione dell’equinozio, quando il giorno pareggia la lunghezza della notte e poi la supera, e quando la natura inizia a fiorire. Allo stesso modo, in molte civiltà, la Dea Madre è la Terra, fecondata dal Cielo (con le sue piogge) o incendiata dal Cielo (con i suoi fulmini), sempre mutevole, ma fertile e produttrice di vita.

Eppure, una differenza fondamentale tra i miti greci (europei) e giudaici (asiatici) c’è. Nel mito greco la realtà appare più fluida. L’universo sembra essere in eterno divenire. La lotta tra le diverse “comunità di esseri” che popolano il cosmo – titani, dèi, semidèi, giganti, ciclopi, uomini, animali, ecc. – si presenta come una situazione naturale (e non come un peccato, un abominio). È normale che ci si sfidi a vicenda per conquistare una posizione di dominio nel cosmo. Il che significa che tra i creatori e le creature non c’è veramente una gerarchia prestabilita ed eterna. Le creature possono ribellarsi ai creatori e prendere il loro posto, se solo hanno volontà e forza sufficiente. Non ci si può sentire in colpa per aver lanciato una sfida ai creatori, né si può pensare che la sfida sia persa in partenza. Semmai ci si può vergognare per una sconfitta.

Ci sono diversi miti della creazione nella tradizione pre-ellenica ed ellenica, dal mito pelasgico al mito omerico, dal mito olimpico ai miti filosofici 14 , ma hanno tutti in comunque questa fluidità. Non c’è semplicemente un Dio increato ed eterno che pone in essere il Creato e lo domina, come nella tradizione giudaica. Chi crea non necessariamente domina, chi domina può essere scalzato dal suo regno. Per fare un esempio, nella Teogonia di Esiodo – una fonte fondamentale della mitografia risalente al 700 a.C. – e nelle successive rielaborazioni, emerge un quadro di eterno divenire. Inizialmente regnano le Tenebre, quindi emerge il Caos, e dalla loro unione l’Erebo, la Notte, il Giorno, e l’Etere. Dall’unione di questi fratelli nasce una serie lunghissima di “divinità”. Tra queste: Madre Terra, il Cielo e il Mare. Da ulteriori unioni tra fratelli o tra figli e genitori nascono anche i giganti e i titani. La questione fondamentale è che queste entità sono in lotta. «Urano (il Cielo stellato, nda) generò i titani dalla Madre Terra dopo aver cacciato i ciclopi, suoi figli ribelli, nel remoto Tartaro, un sinistro luogo che dista dalla terra quanto la terra dista dal cielo (…). Per vendicarsi, la Madre Terra indusse i titani ad assalire il padre loro; e così essi fecero, guidati da Crono, il più giovane dei sette che si era armato di un falcetto di selce. Colsero Urano nel sonno e Crono spietatamente lo castrò col falcetto…» 15 . Ecco allora che Crono, il dio del tempo, assume il dominio dell’universo dopo avere detronizzato Urano, il Cielo, che a sua volta aveva preso il comando laddove prima regnavano il Caos e le Tenebre. Ma anche Crono è destinato ad essere detronizzato. Stavolta sono gli dèi, guidati da Zeus, figlio di Crono, a portare l’assalto. Ancora una volta le creature, i figli, si ribellano ai creatori, i padri. E vincono.

Dopo dieci anni di guerra i titani sono sconfitti. Da notare, tra l’altro, che a guidare i titani non è più Crono, ma Atlante, più giovane e aitante. Anche gli esseri divini invecchiano? Alla fine Zeus stabilisce il suo regno. Ma possiamo dire davvero che questo ordine sarà eterno? Lo stesso Zeus – per quanto potente – è una creatura, non un creatore increato. Tra l’altro deve il suo potere ai ciclopi (i fabbri ferrai) che gli hanno dato la folgore.

Il corollario della religiosità pagana è che gli uomini hanno il diritto di portare una sfida agli dèi. Se tutto è sacro, nulla è sacro. Così come gli dèi hanno scalzato i titani, gli uomini possono benissimo sconfiggere gli dèi e prendere il loro posto. Non a caso Eracle riesce a ferire in battaglia Ares, dio della guerra. Una situazione simile è impensabile nelle tre religioni monoteistiche. In esse, un uomo, per quando valoroso, non potrebbe mai ferire in battaglia e mettere in fuga Dio, Jahvè, Allah. Dio è troppo distante dall’uomo nella scala gerarchica e la scala gerarchica è troppo rigida, perché una “rivoluzione” possa avere successo. L’idea stessa di rivoluzione è pagana, europea. Nella cultura asiatica, Dio è distante dall’uomo, come l’imperatore dai sudditi. Nella cultura europea invece il capo è sovente un primus inter pares. Un guerriero tra guerrieri di pari valore. Il pilastro dell’etica pagana non è dunque il senso di colpa per avere violato un limite invalicabile, una regola supposta eterna, ma il senso della vergogna che interviene in caso di sconfitta o di comportamento codardo.

Ma torniamo a Prometeo. È interessante notare che a Prometeo è attribuita una storia d’amore con Atena. È Zeus stesso a mettere in giro la voce che Prometeo si è incontrato nel Caucaso con la dea sacra ad Atene, ma secondo alcuni lo ha fatto soltanto per coprire il suo vergognoso desiderio di vendetta. Così, Graves sulla questione: «Gli Ateniesi vollero negare a tutti i costi che la loro dea avesse avuto Prometeo come amante, e in quella città egli fu dunque identificato con Efesto, un altro dio del fuoco e inventore…» 16 . Per gli Ateniesi la questione era importante perché la verginità di Atena simboleggiava l’inespugnabilità della città. È, però, evidente che ai Greci veniva piuttosto spontaneo stabilire un legame tra la ragione scientifica e le arti pratiche. 17

Venendo al fuoco, è evidente che si tratta di una tecnica rivoluzionaria, tanto utile quanto pericolosa. Non è solo la tecnica che banalmente scalda i cibi, rendendoli più appetibili, o l’ambiente nei giorni invernali. È la tecnologia alla base della lavorazione dei metalli e pertanto della costruzione delle armi di rame, bronzo e ferro. Milioni di persone sono morte trafitte da una lancia o da una spada forgiata con il fuoco. Inoltre, il fuoco è una tecnologia che, anche con le migliori intenzioni, se sfugge accidentalmente dal controllo umano, può bruciare intere città o foreste. Dai tempi del Paleolitico, questo è successo innumerevoli volte, provocando disastri ambientali e stragi. Insomma, se i nostri antenati paleolitici avessero applicato il principio di precauzione oggi tanto invocato dagli ambientalisti radicali, per cui non si dovrebbe adottare una tecnologia se non è provato con certezza assoluta che non può provocherà alcun danno, oggi non avremmo il fuoco. Il che significa che oggi non esisterebbe l’homo sapiens. Perché questo essere è com’è, anche grazie al fuoco. È una scimmia nuda, senza pelo, perché scalda gli ambienti con il fuoco. Ha il cervello di certe dimensioni, perché le mandibole si sono ridotte non essendo più costrette a masticare carni e vegetali crudi. Probabilmente, anche il linguaggio si è potuto sviluppare grazie alla trasformazione della mandibola, riconducibile alla conquista del fuoco. In definitiva, gli ecologisti radicali non potrebbero essere qui ora a parlare, se il loro principio fosse stato applicato in passato.

Di tutto questo i Greci non erano probabilmente consapevoli. Lo sappiamo noi oggi grazie alla teoria darwiniana. Tuttavia, quest’ultima non rende desueta la prospettiva dei Greci. Essi, pur riconoscendo i pericoli che si annidano in ogni tecnica e in particolare in quella rivoluzionaria del fuoco, non negano la dimensione umana della tecnica. Attribuendo a Prometeo la qualifica di creatore dell’uomo, sembra quasi che avessero intuito che siamo come siamo grazie alle tecniche (ma affermare questo sarebbe un deliberato anacronismo).

I pagani mostrano una grande consapevolezza meta-tecnica quando mettono in luce l’ambivalenza non solo della tecnica in sé, ma anche dell’atteggiamento umano nei confronti della tecnica, personificata nel loro creatore e protettore Prometeo. Dopo avere ottenuto soltanto benefici dal titano, non esitano a denunciarlo a Giove per sottrarsi alla punizione. Il “vile” tradimento della tecnica è un atteggiamento che possiamo notare anche nella società odierna. Ogni giorno gli esseri umani si lamentano e denigrano oggetti tecnologici di cui non vorrebbero o non potrebbero fare a meno.

L’eredità culturale del mito di Prometeo non può essere sottovalutata. Il mito viene richiamato ogni qual volta entra nella storia una tecnologia rivoluzionaria. In particolare quelle legate al controllo e all’uso dell’energia. Ci limitiamo a qualche esempio. La magistrale biografia di Robert Oppenheimer, co-inventore della bomba atomica, firmata da Kai Bird e Martin J. Sherwin, inizia non a caso con le parole di Apollodoro d’Atene, scritte nel II secolo a.C.: «Prometeo donò il fuoco agli uomini di nascosto da Zeus. Quando lo venne a sapere, Zeus ordinò a Efesto di inchiodare il corpo di Prometeo sul Caucaso, che è un monte della Scizia. Per molti anni Prometeo rimase inchiodato al monte e ogni giorno un’aquila volava a divorargli i lobi del fegato, che ricrescevano durante la notte». Il parallelo venne spontaneo, anche perché Oppenheimer fu divorato dai sensi di colpa, oltre che dal cancro, e la sua reticenza a lavorare sulla bomba a idrogeno gli procurò non pochi problemi nel mondo politico e militare. Perciò i due biografi spingono l’analogia fino in fondo: «come Prometeo, il dio greco ribelle che rubò il fuoco a Zeus e lo diede all’umanità, Oppenheimer rese disponibile il fuoco atomico. Ma poi, quando provò a controllarlo, quando cercò di avvertire dei suoi terribili pericoli, i potenti (come Zeus) si sollevarono con rabbia per punirlo». 18

Analogamente, lo scienziato Tullio Regge, grande sostenitore dell’energia nucleare, per il suo libro sui problemi energetici, non poteva trovare titolo più azzeccato de: Gli eredi di Prometeo: L’energia nel futuro. 19 Inoltre, la NASA ha denominato “Prometheus” il progetto volto a mandare nel cosmo veicoli a propulsione elettrica alimentati da un reattore a fissione nucleare. Lo Jupiter Icy Moons Orbiter (JIMO) è stato progettato per raggiungere le tre lune di Giove, Callisto, Ganimede ed Europa, sotto la cui crosta ghiacciata la sonda Galileo ha rilevato la presenza di oceani. Gli scienziati della NASA hanno riproposto l’analogia mitica: «Prometeo ci ha donato il fuoco. Il progetto Prometheus ci darà la capacità di rispondere ad alcune delle domande più affascinanti: c’è vita nel sistema solare? Com’è stato creato il sistema solare, e qual è il suo futuro?» 20 . In altre parole, quando si parla di nucleare – che siano bombe, centrali o propulsori – viene spontaneo pensare al titano della mitologia greca.

Questi riferimenti simbolici testimoniano tutta l’attualità del mito greco. Anche le tecnologie nucleari sono armi a doppio taglio: possono consentirci di produrre energia e quindi vita, ma anche di distruggere tutte le forme di vita su questo pianeta. Molti umani tendono a vedere solo il secondo aspetto. Inoltre, poiché gli umani hanno una sorta di istinto che li porta a generalizzare, a fare di ogni caso una legge generale, essi levano la loro condanna non contro certi usi della tecnica, ma contro tutta la tecnica, contro Prometeo stesso, chiedendo aiuto al Cielo, a Zeus. Sennonché Zeus non potrebbe fare altro che intervenire contro di noi, perché noi siamo la tecnica, noi siamo Prometeo. In altre parole, la denuncia umana della tecnica ha una dimensione schizofrenica, di cui i Greci antichi sembravano essere consapevoli.

Si badi, tuttavia, che ai fini della nostra ricerca non è questo l’aspetto più interessante del mito. Si tenga piuttosto a mente il canovaccio base del mito: i Greci hanno divinizzato la tecnica in Prometeo, ed hanno attribuito al dio della tecnica la creazione dell’uomo.

3.2. Dedalo, l’uomo potenziato

Secondo il biologo britannico John S. Haldane, noto soprattutto per l’invenzione della maschera antigas, «l’interesse sentimentale verso Prometeo ha eccessivamente distratto la nostra attenzione dalla molto più interessante figura di Dedalo». Lo scrive nel 1923, in quello che è da molti considerato un manifesto del transumanesimo, intitolato per l’appunto Daedalus. 21 Qui, Haldane presenta la scienza come «la libera attività delle facoltà divine dell’uomo della ragione e dell’immaginazione» e profetizza la separazione dell’attività sessuale da quella riproduttiva, grazie all’ectogenesi, ossia allo sviluppo di feti umani in uteri artificiali. Nessuno meglio di Dedalo può simboleggiare la pulsione dell’uomo a potenziarsi, a superare se stesso, a varcare la soglia dei propri limiti biologici.

Dedalo era un fabbro, un artefice, dunque un ingegnere dell’era pre-scientifica. Sappiamo che di ogni mito esistono diverse versioni e che le discrepanze cronologiche e genealogiche sono la regola, piuttosto che l’eccezione. Robert Graves sottolinea però che tutti i miti concordano nell’attribuire a Dedalo l’appartenenza alla famiglia reale ateniese e la discendenza da Eretteo. 22 La notizia è interessante, perché in genere i lavori manuali non erano tenuti in gran conto nella società greca e gli aristocratici si dedicavano piuttosto alla politica, alla filosofia, alla guerra. Sempre secondo Graves, Dedalo è una figura mitica che coincide con Efesto, il dio della metallurgia, e anche con Talo, il figlio Icaro, e il dio latino Vulcano. Sono tutte identità mitiche e religiose dell’ingegneria, della tecnica, del genio meccanico. Ça va sans dire che nella Bibbia non viene posta un’enfasi paragonabile su queste forme di conoscenza ed attività, né tantomeno vengono divinizzate. Quindi, anche in relazione alla figura di Dedalo, l’attenzione deve andare innanzitutto al fatto che, nel paganesimo greco-romano, la tecnologia appartiene al sacro.

Vediamo una ad una le invenzioni attribuite a Dedalo e il giudizio mo-rale, implicito o esplicito, che le accompagna. Dedalo deve la sua buona reputazione all’arte della metallurgia che apprende direttamente da Atena, dea della guerra ma anche della ragione (e di conseguenza della guerra ragionata, ben più efficace della guerra istintiva e violenta di Ares). Dunque, la metallurgia è un prodotto della ragione ed è un prodotto divino, perché consente di vincere le guerre. Le armi di rame spezzano i bastoni, ma cedono all’urto di quelle bronzo. Il più evoluto ferro le supera tutte. A nulla valgono l’ira e il valore, se il nemico ha armi tecnologicamente più avanzate e si organizza meglio sul piano tattico-strategico. 23

Oltre alla supremazia bellica, la tecnica garantisce il benessere. Talo, l’apprendista di Dedalo, è molto intelligente e già a dodici anni 24 è superiore al maestro. Inventa vari strumenti di lavoro: la sega, la ruota da vasaio e il compasso per tracciare i cerchi. Diventa perciò famoso in tutta la città. Dedalo, che si attribuiva il merito delle scoperte, invidioso, lo uccide facendolo cadere dal tempio di Atena. Un primo atto immorale è dunque associato alla tecnologia. C’è un significato simbolico nascosto in questa storia? Viene subito da pensare alla lotta per il riconoscimento di cui ha parlato il sociologo Robert K. Merton nei suoi studi di sociologia della scienza. 25 Poiché a scienziati e inventori non spetta altra ricompensa che la fama e il rispetto, la lotta per vedersi riconoscere la paternità di una scoperta è aspra e ai limiti della moralità. Ma, forse, c’è dell’altro. La giovinezza e la precocità di Talo potrebbero volere simboleggiare l’inarrestabile prolificità della tecnica, che impedisce all’inventore di sedere sugli allori. Per quanto geniale e utile possa essere un’invenzione, dietro l’angolo sta già spuntando una nuova invenzione capace di relegare nella storia quelle precedenti. La caduta dal tempio di Atena, il tempio della ragione, potrebbe anche significare che spingersi troppo in alto costituisce un pericolo. Tuttavia, questa interpretazione acquisterebbe un certo valore soltanto se avesse ragione Graves nell’identificare Dedalo, il fabbro, proprio con Talo, l’apprendista. In questo caso la sfida dell’inventore sarebbe sempre con se stesso, e spingendosi sul tetto del tempio della ragione finirebbe per cadere, uccidendosi.

A causa dell’omicidio, Dedalo è costretto a fuggire dalla città (o ne viene espulso, secondo altre versioni) e approda a Creta, dove il re Minosse lo accoglie a braccia aperte. Vediamo, allora, che la tecnica e il tecnico, nonostante tutto, conservano una reputazione positiva. Sapere è potere, come dirà poi Francesco Bacone, e quindi ogni re vuole avere gli uomini di genio dalla propria parte. Fino a un certo punto, però. Fino a che il gioco non inizia a sfuggire di mano.

La tecnica crea costantemente nuovi problemi etici, perché rende possibile ciò che prima sembrava impossibile. Dedalo costruisce infatti una macchina che permette a Pasifae di accoppiarsi con il toro bianco di Posidone e di generare un organismo ibrido: il Minotauro. L’inventore è costretto di nuovo alla fuga, inseguito da Minosse con tutta la flotta. L’ira di Minosse si comprende alla luce delle conseguenze politiche dell’invenzione. Possiamo chiederci, infatti, che senso ha inseguire Dedalo con tutta la flotta, finendo poi per perderla insieme alla propria vita. Tutto per una perversione erotica di Pasifae?

Azzardiamo un’interpretazione più audace. La legge che intende regolare la tecnica arriva sempre in ritardo, perché non si può legiferare su ciò che ancora non esiste. Perciò, se da un lato il potere politico si serve della tecnica e dei tecnici, da questi è continuamente insidiato nelle proprie ansie di egemonia e di controllo totale sulla vita dei sudditi o dei cittadini. Di fronte al potere della tecnica, il sovrano avverte tutta l’insicurezza del proprio potere. Egli ritiene infatti che la propria autorità sia fondata su un diritto naturale, ma la tecnica dimostra costantemente che il concetto di natura (e di naturale) è sfuggente. Essa è in grado di realizzare ciò che prima sembrava contro natura. E sembrava tale, perché impossibile. Ma una volta che si dimostra fisicamente possibile è ancora contro natura? Evidentemente no. La sfida della tecnica è dunque portata non soltanto alla morale “naturale”, che si disintegra, ma anche e soprattutto alla politica. La tecnica rappresenta un costante pericolo per ogni potere politico che pretenda di essere assoluto ed eterno.

La storia poi è ben nota. Con l’aiuto di Pasifae, Dedalo fugge prima dal labirinto in cui era stato rinchiuso. Quindi costruisce le famose ali, legando saldamente le penne più grandi con un intreccio, ma saldando le più piccole con la cera. Con lui c’è il figlio Icaro, concepito con una schiava di Minosse. Le raccomandazioni di Dedalo a non avvicinarsi troppo né al sole né all’acqua cadono nel vuoto. Icaro, preso dall’ebbrezza del volo e dalla nuova condizione sovrumana, si avvicina alla stella e il calore scioglie le ali facendolo precipitare. Siamo sempre nel caso della tecnologia come arma a doppio taglio. Da un lato essa libera l’uomo dalle sue catene fisico-biologiche e lo difende dalle insidie di altri uomini. Dall’altro, può condurlo all’autodistruzione, se l’uomo, preso dall’entusiasmo, non né comprende bene i limiti e i pericoli. Si presti però attenzione anche all’avvertimento di Dedalo. Esso è indicativo del fatto che gli effetti collaterali negativi della tecnica sono prevedibili.

Qualcuno sostiene che Dedalo ha in realtà inventato le vele, innovando le arti della navigazione, prima basate sulla propulsione a remi. Quale che fosse l’invenzione, reale o fantastica, l’ingegnere riesce a mettersi in salvo grazie alle ali (e questo dimostra che chi usa la tecnica in modo corretto né trae vantaggi, piuttosto che svantaggi). Raggiunge prima Cuma, nei pressi di Napoli, e poi la Sicilia, dove ancora una volta viene accolto a braccia aperte. Qui, ospite di Cocalo, inizia a progettare e costruire edifici, e giocattoli per le figlie del re. Minosse, partito con tutta la flotta, riesce però a scovarlo con un tranello. Ha con sé una conchiglia di Tritone e promette una ricompensa a chiunque riesca ad attraversarla da capo a capo con un filo di lino. Cocalo, sfidato, passa il compito a Dedalo che risolve il problema in modo ingegnoso. Pratica un foro sulla punta della conchiglia, vi fa scivolare del miele, quindi lega un filo ad una formica, la quale seguendo la pista di miele si intrufola nelle spirali della conchiglia. Al filo sottile è legato un filo di lino, cosicché la richiesta di Minosse può essere infine soddisfatta. Naturalmente, il re di Creta aveva proposto l’enigmatico gioco soltanto al fine di scoprire il nascondiglio dell’odiato ingegnere.

Chiede a Cocalo di consegnargli Dedalo, ma questi – con l’aiuto delle figlie del re – capovolge la situazione a proprio favore. Mentre Minosse sta facendo un bagno tiepido, lo investe con un getto d’acqua (o di pece) bollente fatto giungere da un tubo appositamente sistemato nel tetto della stanza da bagno. Morto il re, la flotta cretese allo sbando viene facilmente sbaragliata dai Siciliani. Ancora una volta, dunque, l’intelligenza vince. Ma qual è la morale della storia? Intanto, l’enigma dimostra che l’intelligenza pratica è cosa rara. Questo rende gli inventori celebrati, ma anche vulnerabili. Alla fine, però, essi sono vincenti, perché coloro che beneficiano della tecnica sono riconoscenti ai propri benefattori e li aiutano nei momenti di pericolo. Così come Pasifae aiuta Dedalo a fuggire dal labirinto, le figlie di Cocalo lo aiutano ad uccidere Minosse. Sono tutti messaggi che conservano una certa attualità. Ma – lo ripetiamo – quello su cui deve soffermarsi la nostra attenzione è il ruolo che la tecnica riveste nella religione greca. Un ruolo che appare ancora più pregnante nella figura di Atena.

3.3. Atena e gli Illuminati

Abbiamo già visto che la mente di Atena partorisce la metallurgia, forse la più strategica delle tecniche, in quanto legata all’arte della guerra. Ma i Greci attribuiscono ad Atena tutte le più importanti scoperte dei primi passi della civilizzazione, quelli del salto dalle società nomadi dei cacciatori-raccoglitori alle società stanziali agricole. Come ricorda Graves, infatti, «Atena inventò il flauto, la tromba, il vaso di terracotta, l’aratro, il rastrello, il giogo per i buoi, la briglia per i cavalli, il cocchio e la nave. Fu la prima a insegnare la scienza dei numeri e tutte le arti femminili, come il cucinare, il filare, il tessere… [S]e si trova impegnata in guerra non perde mai una battaglia, sia pure contro lo stesso Ares, perché più esperta di lui nell’arte strategica; i capitani accorti si rivolgono sempre a lei per avere consiglio». 26

Atena è dunque l’intelligenza, sia pratica che astratta (la scienza dei numeri). Molti dèi, titani e giganti ambiscono a sposarla, ma lei finisce più nolente che volente nelle braccia di Efesto, il dio della metallurgia. L’amplesso è parziale – perché Atena deve conservarsi pura – ma il contatto è sufficiente per partorire un figlio, con l’aiuto di Madre Terra. Ecco i dettagli della storia. Durante la guerra troiana, Atena chiese ad Efesto di fabbricarle un’armatura. Efesto si assunse l’incarico per amore e rifiutò un corrispettivo in denaro. Posidone lo aveva ingannato, dicendogli che Atena andava alla sua officina perché intendeva unirsi a lui. Quando la dea arrivò, Efesto si gettò su di lei. Atena cercò di sottrarsi, ma Efesto eccitato eiaculò e lo sperma finì su una gamba della dea, poco sopra il ginocchio. Atena afferrò della lana, con essa si ripulì e poi la gettò a terra. Madre Terra rimase feconda e partorì un fanciullo con la coda di serpente al posto delle gambe, ma sapendo che Efesto intendeva fecondare Atena e non lei, si rifiutò di allevarlo. Atena decise quindi di prendersene cura e lo chiamo Erittonio. Lo allevò con molta cura, tanto che molti lo credettero veramente suo figlio. Erittonio diventò poi re di Atene, dove instaurò il culto di Atena (sua “quasi madre”), introdusse il carro trainato da quattro cavalli e insegnò ai concittadini l’arte di lavorare l’argento.

Secondo Graves, Erittonio era stato dal principio inteso come figlio di Efesto (la tecnica) e Atena (la ragione), due divinità che non potevano che sposarsi. Poi essendosi accorti della contraddizione, dato che Atena doveva diventare madre pur restando vergine (non è l’unica del resto), ingarbugliarono la faccenda fino alla versione finale del mito che abbiamo esposto. «Per gli Ateniesi la verginità della dea era simbolo dell’inespugnabilità di Atene stessa: modificarono dunque e alterarono i miti secondo i quali Posidone (…) e Borea (…) le usarono violenza, negando che Efesto l’avesse resa madre di Erittonio, Apollo e Licno (“lampada”). Fecero derivare il nome di Erittonio da erion (“lana”), oppure da eris (“contesa”) e chtonos (“terra”) e inventarono il mito della sua nascita per spiegare la presenza, in pitture arcaiche, di un fanciullo serpente che sbuca dall’egida della dea». 27

Nella realtà, il matrimonio tra ragione e pratica ci fu, generando le arti meccaniche. Ricordiamo che l’ingegnere Dedalo discendeva dalla famiglia reale degli Eretteidi, dunque da Erittonio ed Eretteo, e di conseguenza dalla dea Atena stessa. Morale della storia: la tecnologia è figlia illegittima della ragione, ma sebbene concepita per errore, ripudiata, non amata, allevata quasi a malincuore, alla fine domina la città e occupa il posto di potere che le spetta.

Se è vero che la “massa” usa i simboli spesso per inerzia e abitudine, senza conoscerne o capirne il significato profondo, è anche vero che intellettuali e politici sono molto accorti nella scelta e nell’uso dei simboli. Il fatto che Minerva-Atena abbia conosciuto una seconda giovinezza nell’era moderna, a partire dal Rinascimento, è un fatto che non può essere sottovalutato. Il simbolo della sapienza è stato innalzato su vessilli, impresso su monete, posto in forma di dipinto o di statua a presidio di importanti istituzioni scientifiche e politiche. Per restare solo ai dipinti, come non ricordare “Minerva e il centauro” di Sandro Botticelli, “Minerva che caccia i vizi” di Andrea Mantegna, “Minerva respinge marte” di Jacopo Tintoretto, “Minerva trattiene Achille dall’uccidere Agamennone” di Giovanni Battista Tiepolo, “Minerva distoglie il giovane dai piaceri di Venere” di Pietro da Cortona, “Minerva vittoriosa sull’ignoranza” di Bartholomaeus Spranger, “Minerva protegge la pace da marte” di Pieter Paul Rubens, “Lotta di Marte e Minerva” di Jacques-Louis David, ecc. La statua di Minerva, che nell’antichità si ergeva a protezione di templi, città e accademie, torna a presidiare in età moderna le piazze, le università e i tribunali. Come ci ricorda anche un contenitore di conoscenza popolare come Wikipedia:

L’immagine della Minerva, a rappresentazione della Sapienza, collocata sullo sfondo di un profilo della città di Milano, riconoscibile da alcuni dei suoi edifici più caratteristici, è inserita nel logo dell’Università degli studi di Milano. A Minerva è intitolata un’importante piazza della città di Pavia, dove è rappresentata con una statua. Minerva è rappresentata all’ingresso della biblioteca della Columbia University con l’appellativo di “Alma Mater”. Minerva è rappresentata con una statua nella zona Est della University of North Carolina at Greensboro. Minerva viene usata come ornamento da cofano per le automobili Minerva. Minerva è il logo della famosa società tedesca “Max Planck Society for the Advancement of Science”. Minerva è una rubrica del British Medical Journal. Minerva Medica è il nome di un editore italiano di riviste e libri medici. Minerva è il nome di un istituto inglese di ristrutturazione immobili. Il loro logo è basato sulla scultura in pietra della testa di Minerva trovata ad Aquae Sulis (Bagni Romani). Minerva è raffigurata nello stemma della California perché è entrato nell’Unione in modo “pro forma”, senza passare per il periodo di prova. 28

Minerva è inoltre raffigurata in stemmi e loghi di molte istituzioni di grado superiore, senza considerare l’effige della dea sulle cento lire del vecchio conio. Tra le istituzioni che fanno uso di questo simbolo ricordiamo l’Università di Albany, New York. Qui Minerva è “venerata” dagli studenti anziani e l’antica cerimonia delle torce viene riprodotta nel rituale che precede la laurea, detto “Torch Night”. Il simbolo è anche utilizzato dall’Università dell’Alabama e dall’Union College di New York, il quale ha usato il nome di Minerva anche per il proprio programma spaziale, il Minerva House System. Minerva compare anche nel logo di UFRJ, la Federal University of Rio de Janeiro, in Brasile, della Ghent University, in Belgio, dell’Università di Roma La Sapienza. È noto che, all’interno dell’università è presente una statua della Minerva. Significativamente, intorno a questo monumento si sono stretti gli studenti che protestavano contro la lectio magistralis di Benedetto XVI, indicato da un gruppo di docenti e studenti come «nemico di Galileo e della scienza», nel gennaio del 2008.

Wikipedia ci ricorda anche che «all’inizio del ventesimo secolo, Manuel José Estrada Cabrera, Presidente del Guatemala, tentò di riproporre il Culto di Minerva nel proprio Stato, creando piccoli templi all'interno dei parchi», e anche che «secondo quanto riportato nell’opera Proofs of a Conspiracy di John Robison (1798), il terzo livello degli Illuminati Bavaresi era chiamato Minerval o Fratelli di Minerva, in onore della dea della conoscenza. In seguito, questo titolo venne adottato per il primo grado dei riti Ordo Templi Orientis descritti da Aleister Crowley». 29

Sugli Illuminati e i loro riferimenti a Minerva e al paganesimo possiamo spendere qualche ulteriore parola. Mario Iannaccone racconta che «l’Ordine degli Illuminati nacque dalla volontà e dall’ambizione di Johann-Adam Weishaupt (1748-1838), di Ingolstadt, figlio di Johann-Georg Weishaupt, professore universitario, e di una nipote del barone Johann-Adam von Ickstatt (1702-1776), potente amministratore e uomo di cultura bavarese esponente dell’Aufklärung, l’Illuminismo germanico». Gli Illuminati sono ricordati come una società segreta piuttosto ambigua, a metà strada tra il razionalismo di stampo illuminista e il culto esoterico. Qual è la verità? «Weishaupt, da parte sua, sosteneva che la conoscenza fosse una conquista del raziocinio e della logica; tutto ciò che ci ha lasciato di scritto (e non è poco) ce lo descrive come un razionalista e un materialista, che non ammetteva la possibilità di accedere alla conoscenza usando l’ermetismo o la magia. Anzi, le pratiche esoteriche di qualsiasi genere erano, per lui, “chimere”, “superstizioni”, come le religioni rivelate». Dunque, l’orientamento magico-esoterico non può essere attribuito al fondatore, ma eventualmente ad altri influenti membri che hanno aderito successivamente, in particolare al barone Adolph von Knigge (1752-1796), «brillante libertino, sedicente alchimista, coltivatore, industriale, poeta, scrittore e persino musicista, che sognava di fondare un proprio ordine massonico. Knigge disponeva di ricchezza, fantasia e d’ottimi contatti con aristocratici e potenti. Lui e Weishaupt si conobbero, convincendosi che l’uno avrebbe potuto servire all’altro. Erano diversissimi, non furono mai amici, e probabilmente si detestavano. Ma il matrimonio d’interesse si fece. Weishaupt, mettendo da parte il proprio orgoglio, affidò la riforma del suo Ordine al vulcanico barone». 31 Fu proprio Knigge ad introdurre rituali ed elementi esoterici nell’ideologia della società. Una costante della simbologia e della ritualità delle due fasi della società degli Illuminati fu per l’appunto il riferimento a Minerva, dea della sapienza.

Infatti, «fulcro del sistema erano le Accademie Minervali, circoli culturali di copertura, dove si leggeva, si discuteva, si studiava per “illuminarsi” e “illuminare”. I gradi, inizialmente, erano i seguenti: Novizio, Minervale, Minervale Illuminato e Aeropagita (il nome derivava dalla magistratura suprema dell’Antica Atene), ma Weishaupt considerava provvisoria questa gerarchia, (chiamata Classe Minervale) poiché ad essa avrebbe dovuto seguirne una completa, provvista di gradi superiori (Classe dei Misteri)». 32

L’ideologia di Weishaupt si comprende soprattutto alla luce delle numerose lettere inviate agli adepti, in cui espone i suoi insegnamenti (nei quali si intravede l’influenza di Jean-Jacques Rousseau). Il fondatore mirava all’affrancamento dell’umanità dalla religione e dai poteri feudali. Il fine della “cospirazione” era arrivare progressivamente all’ateismo, al comunismo e ad un governo mondiale retto da filosofi, ovvero alla condizione in cui l’umanità avrebbe finalmente potuto dirsi “adulta”. «La simbologia degli Illuminati si ricava dai rituali e dalle descrizioni degli arredi di loggia a noi pervenuti, e comprendeva l’immagine della dea Minerva con la civetta, simboli della sapienza e della sua capacità di vedere nell’oscurità. Minerva, del resto dava il nome alle Accademie Minervali, e ai gradi Minervale e Minervale Illuminato nelle due versioni della gerarchia, quella di Weishaupt (1776-1781) e quella di Knigge (1782-1786)». 33

Con questa associazione, non vogliamo ora sostenere la teoria “cospirazionista” che vuole gli Illuminati reggere le sorti del mondo e lasciare i propri segni in forma di monumenti a Minerva in università o altre istituzioni. Piuttosto vogliamo dire che chiunque, per qualunque ragione, si richiama a questa simbologia fa ipso facto riferimento a valori fondamentali del paganesimo greco-romano. Chi nei secoli passati ha lottato per superare il cristianesimo – in nome della ragione, della scienza, della tecnica – lo ha fatto innanzitutto aggrappandosi ad una tradizione più antica, pagana, greco-romana. Se non altro, perché questa tradizione aveva una dea della ragione, della scienza, della tecnica.

Per concludere, i quattro aspetti fondamentali della religione pagana che vanno tenuti a mente sono i seguenti: a) i pagani avevano dèi della tecnica (Prometeo, Atena, Efesto, Dedalo, Asclepio, Ermete, ecc.); b) essi sono i nostri creatori o alleati; c) gli uomini hanno il diritto di ambire a una condizione divina (potenza, immortalità, conoscenza); d) la condizione divina può essere acquisita con la tecnica. Nulla di simile si trova nella Bibbia o nei Vangeli, perlomeno in modo così esplicito.

4. L’ordine etico-politico: il grande capovolgimento

In sequenza cronologica, dopo l’elaborazione dei miti e delle cosmogonie, viene la riflessione filosofica sugli assetti sociali e politici. Nell’età classica, in Grecia, assistiamo infatti ad una appassionata discussione sulle forme di governo che non ha equivalenti nelle altre civiltà del tempo. In particolare, il pensiero politico greco si pone esattamente agli antipodi del pensiero teocratico giudaico, poggiandosi sull’idea che l’uomo è autonomo, governa se stesso, e non eteronomo, governato da Dio. Su questo non poteva essere più chiaro Umberto Galimberti:

Che cosa dice l’illuminismo? Dice che l’uomo deve raggiungere la sua autonomia. Autonomia è una parola greca: “nomos” vuol dire “legge”, “autos” vuol dire “se stesso”, “autonomia” vuol dire che “l’uomo diventa legge a se stesso”. Questa è l’autonomia. Questa autonomia non l’ha inventata l’illuminismo, l’ha inventata Platone. Platone dice che un giorno abbiamo assistito al “megiste metabolè”, al “grande capovolgimento” in cui gli dèi abbandonarono il governo del mondo e gli uomini dovettero allora inventare la politica per autogovernarsi. Questo dice Platone.

Quindi le radici illuministiche risalgono fino a Platone. Sennonché il Platone che dice queste cose è stato completamente disorganizzato dall’operazione cristiana e cattolica messa in atto per esempio da Giovanni Reale e dalla scuola di Tubinga, i quali tendono a far passare un Platone che non è più quello che ha detto che la politica è un evento umano dopo che gli dèi hanno abbandonato il governo del mondo, ma Platone è un anticipatore del cristianesimo. Questa operazione culturale è un’operazione molto pericolosa che fa da supporto all’atteggiamento che ha assunto la chiesa contro l’autonomia dell’uomo, contro l’illuminismo. 34

Avendo raggiunto l’autonomia, avendo liberato la scena dall’ingombrante presenza degli dèi, avendo desacralizzato il cosmo, avendo operato il grande capovolgimento, i Greci hanno iniziato a chiedersi se il potere politico non potesse essere utilizzato anche per plasmare l’uomo, nelle sue forme corporali e spirituali. Risposero positivamente ed individuarono nelle tecniche (e la politica stessa era intesa come tecnica) lo strumento per raggiungere il fine. Anche nell’ordine politico-filosofico, la tecnica assume dunque un ruolo fondamentale.

Se nei Vangeli assistiamo a guarigioni miracolose, ovvero al mero ripristino di funzioni biologiche perdute grazie ad interventi miracolosi, nella Grecia antica assistiamo al costante tentativo di migliorare le prestazioni dei corpi sani, nella guerra come nell’atletica (che poi era anche preparazione alla guerra), grazie ad interventi tecnici. E, soprattutto, all’inquadramento di questo problema nell’ambito della politica, della riflessione sulle forme di governo. In una parola, assistiamo alla nascita della biopolitica.

Sappiamo, per esempio, che le Olimpiadi in Grecia avevano grande importanza, tanto che in occasione delle stesse le città rivali sospendevano ogni ostilità e si impegnavano a rispettare una “tregua olimpica” per tutta la durata dei giochi. Molti studi confermano che gli atleti che vi prendevano parte, oltre ad allenarsi duramente, seguivano speciali diete ipercaloriche a base di carni rosse e assumevano anche sostanze dopanti. 35 I vincitori venivano elevati al rango di eroi o semidèi, a dimostrazione che dietro la competizione c’era una dimensione morale e politica. «Gareggiare, infatti, significava confrontarsi sul piano di una comune, antica etica competitiva, che continuò a ispirare i valori agonistici anche quando all’etica degli eroi omerici si affiancarono nuovi valori cooperativi, più congeniali alla evoluzione in senso democratico delle poleis, e in particolare di Atene. Nelle gare, il greco metteva alla prova la sua “virtù” fatta di volontà di superamento, ricerca del primo posto, capacità di unire forza fisica e volontà a tutta prova». 36

Le olimpiadi si svolsero ininterrottamente per più di mille anni, dal 776 a.C. al 393 d.C., e forse non è un caso se furono abolite da un imperatore cristiano: Teodosio.

Analizzando gli scritti dei filosofi greci, e la loro attenzione maniacale ai saperi e alla ginnastica, si comprende che il miglioramento della mente e del corpo dei cittadini è visto come il vero fondamento della polis. La pedagogia e la biopolitica sono viste come discipline essenziali per forgiare una società perfetta. Nell’antichità pagana, si nota infatti una concezione della vita e della persona diversa da quella cristiana. Per i Greci la bellezza è un indice di perfezione morale (kalokagatia) 37 , perciò l’eugenetica veniva considerata moralmente accettabile o addirittura doverosa. Perlomeno in una fase della storia della civiltà greca, la bellezza e la salute sono state viste come valori fondamentali, strettamente legati alle qualità morali del cittadino, mentre la malvagità è stata associata alla bruttezza e alla deformità, rendendole quindi innaturali e contrarie all’ordine. Il virtuoso è un veritiero, dice la verità, non ha bisogno di mentire, perché è coraggioso; ed è coraggioso perché è forte, benfatto fisicamente, adatto al combattimento. 38 In questo senso la moralità della persona si fonde con la sua forma fisica. È noto che Licurgo, a Sparta, aveva imposto la regola che ogni neonato minorato dovesse essere lanciato dal picco del Taigeto. L’eliminazione degli imperfetti veniva giustificata in nome del bene pubblico. Per la stessa ragione, anche i bambini apparentemente sani dovevano dormire all’aperto (esposizione), affinché la selezione naturale facesse sopravvivere i forti e morire i deboli. La debolezza avrebbe introdotto nella polis l’immoralità – il sotterfugio in luogo della franchezza, la menzogna in luogo della verità, la codardia in luogo del coraggio.

Questa visione della perfezione non era limitata a Sparta. Anche ad Atene, le menti più illustri accettavano gli stessi princìpi, pur senza arrivare alle drastiche e brutali misure di Licurgo. Nelle opere filosofiche di Platone e Aristotele si trova una risoluta difesa delle pratiche eugenetiche. Anche per questa ragione, Platone è stato indicato da Karl Popper come il teorico più autorevole dello Stato totalitario – uno Stato che arriva al punto di pianificare i corpi dei cittadini 39 . L’interpretazione di Popper ci pare piuttosto forzata, anche alla luce di quanto evidenziato da Galimberti.

È vero che pratiche come l’aborto, l’eutanasia, la schiavitù, la discriminazione razziale e lo stesso infanticidio erano discusse da queste grandi menti del passato con una disinvoltura che oggi può lasciare perplessi. Ai nostri giorni, nessuno difende l’infanticidio, e chi sostiene la legalizzazione dell’aborto non sostiene tanto la liceità morale dell’atto in sé, quanto la necessità di contrastare l’aborto clandestino, per garantire la salute della donna. Bisogna però calare quei ragionamenti nella situazione socio-economica del tempo. Senza dilungarci troppo, dobbiamo tenere a mente che ogni bocca da sfamare costituiva un costo notevole per una società pre-industriale, a base cittadina, e dunque costretta in un perimetro delimitato. E, in una situazione politica di bellum omnia contra omnes, ogni cittadino improduttivo o incapace di combattere costituiva un pericolo per tutta la comunità.

Inoltre, contrariamente a quanto oggi molti pensano, alla base di queste pratiche eugenetiche, c’era una concezione più spirituale della persona, e non meno spirituale (come vorrebbero i cristiani). Oggi, l’aborto, il Taigeto o l’esposizione ci ripugnano perché abbiamo una concezione materialistica, fisica, corporale della persona e dell’esistenza. Identifichiamo la persona con il corpo. È noto invece che Platone è un dualista e – come Pitagora, Orfeo, e altri filosofi greci che lo hanno preceduto – crede nella metempsicosi o reincarnazione. Egli crede che l’uomo si identifichi innanzitutto con l’anima, il pensiero, la coscienza, mentre il corpo sarebbe un mero strumento (la prigione dell’anima). Adottare una biopolitica eugenetica che consenta la produzione di corpi migliori, significa dunque permettere alle anime che si incarnano nei feti di avere, nel corso della vita, “strumenti” migliori per essere buoni cittadini e validi guerrieri. L’eugenetica – anche attraverso le pratiche dell’eutanasia e dell’aborto – è intesa a dare agli uomini (le anime) gli strumenti (i corpi) che garantiscono maggiore libertà d’azione e di pensiero. La soppressione di un corpo difettoso, soprattutto se ancora privo o non più dotato di coscienza, non equivale alla soppressione di una persona, proprio perché la persona è concepita in termini spirituali e non materiali.

Restano dubbi sul fatto che anche Aristotele sposasse la concezione dualistica del maestro e, in particolare, la dottrina della metempsicosi. 40 Tuttavia, anche per lo Stagirita, l’aborto non può essere equiparato ad un omicidio semplicemente perché l’anima entra nel corpo umano soltanto al quarantesimo giorno dal concepimento. Inoltre, anche Aristotele si preoccupa di delineare i comportamenti più adeguati per irrobustire e migliorare la discendenza, per il bene della comunità e degli stessi individui che verranno.

4.1. La repubblica eugenetica di Platone

Per sostenere l’idea di un Platone anticipatore del Cristianesimo, bisogna chiudere non un occhio, ma tutti e due su alcune fondamentali idee etico-politiche di questo filosofo. Nei Vangeli si legge che il virtuoso (il beato, il giusto, il buono) è il povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace, il perseguitato. 41 Ovvero, alla base della virtù cristiana troviamo un atteggiamento altruistico o rinunciatario di persone semplici e perdenti che affidano la propria vendetta ad un essere soprannaturale. 42 Al contrario, nel pensiero di Platone «virtuoso è chi eccelle nella capacità di fare qualcosa, mentre deve ricoprirsi di vergogna chi non eccelle. La definizione di virtù in termini di efficienza e di eccellenza in un determinato campo riproduce in ambito etico lo stesso criterio impiegato per definire la competenza tecnica. In entrambi i casi si tratta di un potere (dýnamis) regolato da un sapere (epistéme) come ben lascia intendere l’impiego originario del termine aghatós (buono) riferito a colui che è “buono a fare [ágo]”, per cui colui che ha virtù è detto buono come colui che ha competenza tecnica nel suo campo». 43 Dunque, in Platone, sono la conoscenza e la capacità (il successo) che rendono buoni, virtuosi, beati, e non l’ignoranza e l’incapacità (la sconfitta). Su questo insisterà molto anche Nietzsche che, alla maniera dei Greci, vedrà l’origine del male proprio nella debolezza e nella sconfitta, produttrici di risentimento e vendetta – se non in questo mondo, in un immaginario aldilà. 44

Dall’equazione tra virtù morale e competenza tecnica bisogna dunque partire per comprendere l’essenza della biopolitica platonica. In tal senso, risultano illuminanti alcuni passi del dialogo tra Socrate e Glaucone nella Repubblica. Qui, scopriamo che lo scopo dei due è forgiare una classe dirigente eccellente tanto a livello fisico che intellettivo: la classe dei guardiani. Infatti, il «guardiano si trova ad essere insieme guerriero e filosofo» e, inoltre, «governanti e ausiliari saranno sottoposti a una rigida disciplina, di tipo spartano: dovranno fare una vita comunitaria, e non dovranno avere proprietà, in modo da non avere nessun interesse personale, che li trasformi, da alleati, in padroni odiosi per i loro concittadini» (417a-b).

Nella Repubblica, scopriamo anche che, per Platone, l’educazione svolge una parte importante ma non esclusiva nella creazione dei guardiani. Per bocca di Socrate, si mette l’accento anche sull’aspetto biologico.

«Dimmi una cosa, Glaucone: vedo in casa tua cani da caccia e un gran numero di uccelli rari. Hai mai pensato al loro accoppiamento e alla loro figliazione?»
«Ossia?», chiese.
«Tanto per cominciare, sebbene siano tutti di razza, non ce ne sono alcuni che tra loro risultano i migliori?»
«Ci sono».
«E tu fai figliare da tutti quanti indistintamente, o stai attento che ciò avvenga il più possibile dai migliori?»
«Dai migliori».
«Dai più giovani, dai più vecchi, o da quelli nel massimo fiore dell’età?»
«Da questi ultimi».
«E se la figliazione non avviene così, ritieni che la razza degli uccelli e dei cani peggiorerà di molto?»
«Certamente», rispose.
«E per i cavalli e gli altri animali pensi che sia diverso?», domandai.
«Sarebbe assurdo!», esclamò.
«Perbacco!», feci io. «Bisogna che i nostri governanti, caro amico, siano davvero di prim’ordine, se è così anche per il genere umano!».
«Certo che è così », disse. «Ma perché?»
«Perché», risposi, «è necessario che essi facciano uso di molti rimedi. Noi pensiamo che per il corpo di chi non ha bisogno di medicine, ma vuole soltanto seguire una dieta, basti anche un medico mediocre; quando invece occorre anche somministrare delle medicine, sappiamo che c’è bisogno di un medico più valido».

Sebbene Platone – come Socrate – fosse dualista e attribuisse la propria preferenza all’anima immortale piuttosto che al corpo perituro, alla ragione piuttosto che ai sensi, all’essere piuttosto che al divenire, al perfetto mondo delle idee piuttosto che all’ingannevole mondo reale, egli non trascurava affatto i corpi, la medicina, la procreazione, la ginnastica. Se in guerra gli Israeliti si affidavano prima di tutto alla complicità del proprio dio, i Greci si affidavano alla ragione, alla strategia, alla preparazione atletica dei corpi; e, di conseguenza, alla procreazione ragionata, all’allevamento selettivo, all’educazione. Platone avanza una proposta fondata su precisi calcoli e accurati studi che – per quanto oggi possano apparire pseudoscientifici – mostrano l’approccio ragionato e non fatalistico al problema della procreazione.

Coloro che avete educato come guide della città, per quanto sapienti, non riusciranno a cogliere con la ragione applicata all’esperienza i periodi di fecondità e sterilità della vostra razza, i quali sfuggiranno al loro controllo; perciò talvolta genereranno figli quando non dovrebbero. Per la prole divina il periodo fecondo è racchiuso da un numero perfetto, (7) per quella umana dal primo numero in cui le elevazioni al quadrato e al cubo, comprendenti tre intervalli e quattro termini costituiti da fattori uguali e disuguali, crescenti e decrescenti, rendono tutte le cose tra loro commensurabili e razionali. La loro base epitrita, accoppiata al numero cinque ed elevata al cubo, genera due armonie, l’una rappresentata da un numero moltiplicato per se stesso, cento volte cento, l’altra composta di fattori in parte usuali e in parte disuguali, ossia da cento diagonali razionali di cinque diminuite ciascuna di una unità, o altrettante irrazionali diminuite di due unità, e da cento cubi di tre. (8) Questo numero geometrico ha nel suo insieme il potere sulle generazioni migliori e peggiori. E quando i vostri guardiani, ignorandole, uniranno in matrimonio ragazzi e ragazze fuori del tempo opportuno, i figli che nasceranno non saranno nobili né fortunati. I predecessori avranno un bel mettere alla guida dello Stato i migliori tra quelli; ma costoro, occupate le cariche dei padri senza esserne degni, cominceranno, benché guardiani, a disinteressarsi di noi, stimando meno del dovuto la musica, (9) e di conseguenza i vostri giovani diventeranno più incolti. Dopo di loro saliranno al potere governanti non sufficientemente forniti delle qualità di guardiani per valutare le razze di Esiodo e quelle d’oro, d’argento, di bronzo e di ferro che si produrranno tra voi…

I guardiani sono visti come potenziali “esseri sovrumani”, ovvero esseri di rango più elevato rispetto agli uomini. Socrate afferma infatti che i guardiani anziani «dopo aver educato altri concittadini e averli lasciati al loro posto come guardiani, andranno ad abitare nelle isole dei beati. Allora la città dovrà consacrare loro monumenti e sacrifici pubblici come a esseri sovrumani [enfasi nostra], se la Pizia darà responso favorevole, altrimenti come a uomini beati e divini».

Alain De Benoist, mettendo a confronto Atene e Gerusalemme, sottolinea che nel mondo pagano «vi è, tra gli uomini e gli dèi, una differenza di livello, ma non una differenza radicale di natura. Gli dèi sono fatti a immagine degli uomini, di cui essi offrono una ripresentazione sublimata; gli uomini, superando se stessi, possono, almeno parzialmente, partecipare alla natura degli dèi. Nell’Antichità, la figura esemplare dell’eroe costituiva l’intermediario tra i due livelli. L’eroe è un semi-dio – idea che appariva del tutto naturale agli Antichi, mentre nella Bibbia essa è per forza ritenuta blasfema. Presso i Greci e i Romani, quando un uomo era eroizzato, il popolo trovava la cosa buona e bella. Ma nella Bibbia, quando il “serpente” propone ad Eva di essere “come dèi” (Gen. 3, 5), si tratta di un “abominio”». 45

Se Iahvé, il dio giudaico, è l’alterità assoluta rispetto all’uomo, che è visto come infinitamente più debole e imperfetto e dunque non può che umiliarsi di fronte al proprio onnipotente creatore; tra gli dèi greci e gli uomini c’è un rapporto improntato talvolta sulla complicità e talvolta sulla rivalità. E l’esito finale della competizione è tutt’altro che scontato. Per dirla con Eraclito, «gli dèi sono degli uomini immortali, mentre gli uomini sono degli dèi mortali; la nostra vita è la loro morte, e la nostra morte la loro vita» (framm. 62).

È inoltre interessante il fatto che, in una società maschilista come quella greca, Platone stabilisca nella propria utopia un pari trattamento per uomini e donne, tanto che anche le ragazze possono diventare guardiani e dedicarsi alla guerra e alla politica, purché abbiano un’adeguata costituzione fisica e psichica. 46 Ovvero, la diseguaglianza che caratterizza la gerarchia sociale non è costruita sulla base di pregiudizi, ma sulla base delle effettive competenze, capacità, virtù. Questo principio empirico e meritocratico nella selezione dei “migliori” consente anche di correggere eventuali errori della teoria che regola la riproduzione. Platone non assume affatto che la selezione genetica, secondo i criteri “scientifici” relativi ai periodi di fecondità e alla qualità del materiale umano, assicuri che ogni cittadino si trovi sempre al posto giusto nella gerarchia sociale. Anche perché non considera corretto obbligare i cittadini ad accoppiarsi secondo le disposizioni dei guardiani. Questi devono solo favorire certi incontri e certi accoppiamenti, ma in ultima istanza la scelta degli individui deve restare libera. Infatti, l’autore precisa che i simili si accoppieranno tra loro di necessità, ma non la necessità della geometria (o della legge), quanto piuttosto la necessità dell’eros – che riesce a persuadere con forza ben maggiore. Sarà sufficiente che ragazzi e ragazze di costituzione simile vivano insieme, si incontrino nudi nelle palestre, nei ginnasi, e la natura farà il suo corso. 47 È per questo che la repubblica di Platone, pur adottando una precisa biopolitica, non può essere definita strictu senso uno stato (bio)etico dispotico.

Ma allora che si fa se una guardiana partorisce un figlio che poi si mostra inadatto ad assumere il comando? Si potrà e dovrà correggere l’errore: «Voi tutti nella polis siete fratelli, diremo loro narrando il mito, ma il dio, mentre vi plasmava, a quelli di voi che sono adatti al governo mescolò, nella loro genesi, dell’oro, e perciò sono di grandissimo valore; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Poiché siete congeneri tutti dovreste generare figli per lo più simili a voi; ma c’è caso che da oro nasca discendenza argentea, e da argentea aurea, e così reciprocamente in tutto il resto. Perciò il dio ordina prima e soprattutto ai governanti di non essere di niente tanto buoni guardiani e di non custodire nulla tanto forte quanto i figli, badando a quale di questi si sia mescolato nelle loro anime; e se un loro figlio nasce con del bronzo o del ferro, non si facciano per nulla impietosire, ma assegnando alla physis il riguardo che le si addice, lo respingano tra gli artigiani o i contadini; e se di contro da questi nasce qualcuno con dell’oro o dell’argento, lo onorino e innalzino l’uno a custode, l’altro ad ausiliario; perché c’è un oracolo per il quale la polis andrà in rovina, quando la custodisca il custode di ferro o il custode di bronzo» (415a-c).

Ecco allora che la struttura gerarchica della società, pur essendo concepita in termini inegualitari e classisti, resta nel contempo fondata su una rigorosa meritocrazia. Non la nascita, non il sesso, ma il merito decidono in ultima istanza la collocazione dell’individuo nella gerarchia. Tra l’altro, i guardiani non possono suscitare troppe gelosie nel popolo che governano, perché non posseggono nulla, vivono in modo spartano, in comunità, accasermati. Si chiede infatti Adimanto se non finirà che la casta guerriera diventi in realtà una casta di infelici, visto che pur essendo i veri padroni dello stato non ne traggono nessun beneficio materiale. Mentre altri posseggono terre, case grandi e arredate sontuosamente, oro e argento, e possono perciò ricevere ospiti importanti, i guardiani ricevono solo il vitto. Perciò, non potrebbero pagarsi un viaggio, togliersi qualche capriccio, e nemmeno «spassarsela con qualche prostituta» perché «non hanno di che pagarla». 48

L’obiezione è significativa, perche nel mondo greco-romano il fine ultimo dell’azione è la felicità. Il concetto di felicità terrena è centrale nell’etica (e nella politica) pagana, al contrario di quanto si rileva in quella cristiana. Socrate risponderà allora all’obiezione di Adimanto, dicendo che il fine dell’organizzazione repubblicana consiste per l’appunto nel determinare una società felice nel suo complesso, e non nel concedere ad una classe [éthnos] più felicità di quanta ne abbiano le altre. Garantire ad un solo éthnos il potere politico e insieme le ricchezze materiali creerebbe uno squilibrio, una situazione di ingiustizia e dunque un’infelicità diffusa. 49

In estrema sintesi, Platone propone nella Repubblica una biopolitica fondata su un progetto eugenetico, con tratti autoritari, ma non dispotici. Gli accoppiamenti sono infatti guidati secondo criteri razionali, ma non imposti con la forza agli individui. I guardiani detengono il potere e il sapere, ma sono più poveri dei loro sottoposti. Il frutto finale di questa politica costituzionale sarà dunque una società inegualitaria, ma non perciò fondata sull’arbitrio e il sopruso. La dimensione meritocratica è infatti ciò che distingue l’aristocrazia – il governo dei migliori – dall’oligarchia – il governo di una casta ereditaria a prescindere dalla qualità dei governanti.

4.2. Aristotele e la politica dei corpi

Aristotele non si distingue particolarmente dal maestro Platone, per quanto riguarda la prospettiva biopolitica. Anch’egli è convinto che sia compito del legislatore determinare la forma dei corpi dei cittadini, oltreché la loro anima. Nel Trattato sui governi (conosciuto anche come la Politica), Aristotele non poteva essere più chiaro: «Ora adunche se al datore di legge s’appartiene di considerare prima qualmente debbino essere fatti i corpi che l’anime, primieramente gli sia da considerare la parte dei matrimonî in che tempo e’ si debbino fare, e di che qualità debbino essere quei, che si congiungono in tal legame». 50

E qualora sorgessero dubbi sulle intenzioni, il concetto è ribadito dal filosofo pochi paragrafi sotto: «Ancora debbe stare in tal modo la cosa, per ritornare donde noi ci siamo partiti, acciocchè li corpi di chi nasce sieno quali li desidera il dator di legge». 51

Quando si leggono i capitoli del Trattato dedicati alla biopolitica, si corre il rischio di guardare il dito quando l’autore ci indica la luna. Ovvero, spesso, si presta attenzione al fatto che Aristotele possiede conoscenze scientifiche inadeguate, a riguardo della procreazione, che lo portano a consigliare in modo errato il legislatore. Ma qui la questione principale è un’altra: Aristotele considera giusta una biopolitica di stampo eugenetico, con caratteri in parte autoritari, volta a decidere la forma dei corpi e lo spirito dei cittadini. Il fatto che non avesse le conoscenze necessarie è secondario. Bisogna pensare a quello che farebbe oggi, sulla base della propria filosofia, se avesse a disposizione le moderne biotecnologie.

Ma andiamo per ordine. Quello che dice l’autore in apertura del capitolo XVI, può apparire ancora oggi ragionevole a molti. Per la stabilità e la buona riuscita dell’unione famigliare è consigliabile che non ci sia troppa differenza d’età tra genitori e figli, né troppo poca. Nel primo caso i genitori potrebbero venire a mancare quando l’educazione e il sostegno ai figli è ancora necessario, mentre nel secondo caso potrebbe venire a deficere la dovuta riverenza, al punto che i figli potrebbero trattare i genitori come amici piuttosto che come educatori. Allo stesso tempo, è necessario che entrambi gli sposi siano in età fertile, affinché lo scopo di avere prole possa essere raggiunto. Secondo Aristotele, un intervento del legislatore è necessario affinché questi minimi requisiti siano rispettati.

Più in dettaglio, il filosofo propone di alzare a diciotto anni l’età in cui le donne possono contrarre matrimonio. Evidentemente, era diffuso l’uso di sposarsi prima, intorno ai quindici anni. Ancora oggi, in molte legislazioni del mondo contemporaneo i cittadini troppo giovani – specialmente se non ancora in età riproduttiva – non possono unirsi in matrimonio. Tuttavia, egli non pone il problema in termini genericamente “morali”, riferendosi per esempio all’immaturità degli sposi e dunque alla loro incapacità di decidere per il proprio bene, ma in termini “eu-genetici”. Che una quindicenne si sposi e procrei non è opportuno innanzitutto per la prole, perché nascerebbe “imperfetta”, e – di conseguenza – per la polis che non avrebbe i cittadini di cui necessita.

«La combinazione dei giovani non è buona per la procreazione dei figliuoli, imperocchè in tutti gli animali i fatti prodotti da’ giovani sono imperfetti, e sono piuttosto femmine e di statura piccoli. Onde è di necessità che questo medesimo avvenga ancora negli uomini. Siami di ciò indizio, che in tutti quei luoghi dove si costumano farsi li matrimonî infra i giovanetti, quivi per lo più nascono, parti invalidi, e di bassa statura. Ancora in tai parti le giovani vi durano più fatica, e più sovente vi periscono». 52

Dunque, c’è il pericolo che le giovinette gravide possano perire in occasione del parto, ma anche la convinzione che i figli delle giovinette siano per lo più mal riusciti, ovvero femmine (che i Greci vedevano come maschi “incompleti”) o invalidi. Sebbene la teoria “scientifica” risulti poco plausibile, resta l’idea etico-politica della preferibilità di ottenere figli – e dunque cittadini – sani, ben riusciti, perfetti.

D’altra parte – aggiunge Aristotele – non bisogna nemmeno attendere troppo perché «il termino della generazione finisca negli uomini per lo più in settanta anni (e questo è l’ultimo) e nelle donne in cinquanta», e perché anche generando a tarda età i corpi dei figli non sarebbero ideali. Dunque, l’autore conclude che «sta bene, che le giovani si congiunghino in diciotto anni, e li maschi in trentasette o in circa. Chè in tale modo tal congiunzione verrà fatta in sulla gagliardia della età, e verranno ancora a finire le forze del generare opportunamente». 53

Lo Stagirita cerca di stabilire anche il periodo migliore per l’accoppiamento, tenendo presente i venti che tirano e le temperature, ma, cosa ben più interessante, sostiene che i genitori devono seguire i consigli dei medici per ottenere la sanità dei corpi dei figli. 54 Di nuovo, la questione del periodo dell’accoppiamento pare oggi poco plausibile scientificamente, ma è un fatto che, allora come oggi, ai medici viene riconosciuto un ruolo importante nel seguire la gravidanza e il parto. Si dice spesso che oggi si nasce e si muore in ospedale, mentre un tempo – intendendo la società pre-industriale – si nasceva e si moriva a casa. Questo è senz’altro vero, ma qui vediamo che l’idea della gravidanza e del parto medicalmente assistiti non è sorta ex nihilo con l’avvento della società industriale. Questo costume ha in realtà le radici nel pensiero greco antico.

Non viene trascurato nemmeno l’esercizio fisico necessario a produrre una prole “ben riuscita”. L’autore non parla qui degli esercizi che devono fare i bambini, perché questo problema lo affronta in un capitolo apposito («di quegli, che sono nati, fia me’ dire dove si tratterà della instruzione dei fanciugli»), ma di quelli che devono fare i genitori. Aristotele sostiene che «l’abitudine degli atleti non è buona alla civile disposizione, né per la sanità, né per la generazione dei figliuoli, né ancora la molta osservanza, o la troppa astinenza, ma la mediocrità infra le cose conte. Chè egli è bene essere assuefatto alle fatiche, ma non già a quelle che sieno violente, né che sieno d’una sola sorte, come sono assuefatti gli atleti; ma alle fatiche da uomini liberi, e in queste simili si debbono fare esercitare sì le femmine come i maschi». 55

Dunque, ginnastica obbligatoria per entrambi i genitori, ma generalizzata e leggera. Il legislatore ordina inoltre alle donne gravide di non fare vita troppo agiata e di non nutrirsi con cibi troppo delicati.

Interessante poi la questione legata all’interruzione di gravidanza, all’eutanasia dei figli “difettosi” e al controllo demografico. Sappiamo che oggi i cattolici sono contrari su tutta la linea a queste pratiche. E sappiamo anche che le legislazioni di molti paesi del mondo ammettono invece l’aborto o la soppressione di un feto in caso di gravi patologie della madre o del nascituro e incoraggiano politiche di controllo delle nascite attraverso strumenti contraccettivi. Sebbene certe pratiche, come l’esposizione, non siano più ritenute moralmente accettabili, deve qui riconoscersi che le legislazioni dei paesi laici si avvicinano nello spirito (i fini), se non nella lettera (i mezzi), alla filosofia pagana.

Scrive Aristotele: «Quanto alla esposizione, e allo allevamento dei figliuoli, facciasi una legge, che e’ non si possa allevare nessun parto che manchi dei membri suoi; e per riparare al troppo numero d’essi, se l’ordine della città proibisse, cioè che e’ non si potessino esporre, e’ bisogna in qualche modo determinare questo numero. E se fuori di tale determinazione alcuni pure avessino più multiplicato in figliuoli, debbesi fare sconciare le donne innanzi che li feti abbino senso, o vita; imperocchè, il pio e il perfetto è quando il feto ha senso, e vita». 56

Ecco allora che si chiede alla legge di vietare l’allevamento (un termine zoologico utilizzato anche da Nietzsche, forse proprio sulla scorta delle letture classiche) di bambini pesantemente menomati. Il mezzo è brutale, ma, come accennato in precedenza, non dobbiamo scordare che le nostre società – grazie alla rivoluzione industriale – hanno un surplus di beni e cittadini (dunque lavoratori e soldati) che le società antiche non avevano. Quelle società non potevano permettersi di avere troppe bocche da sfamare e soprattutto cittadini improduttivi e inadatti al combattimento. Inoltre, lo stesso Aristotele ci informa che già allora c’erano città che non ammettevano la pratica dell’esposizione. Dunque, per incontrare una certa sensibilità “umanitaria”, non dobbiamo attendere la carità cristiana. Il mondo pagano non è un monolite, come testimonia la diversità di costumi e leggi di Sparta e Atene. Del resto, anche nel mondo cristiano troviamo tanto i San Francesco d’Assisi, quanto i San Roberto Bellarmino.

Dunque lo Stagirita stabilisce che, nel caso non sia possibile procedere con l’esposizione, si debba effettuare il controllo delle nascite con l’interruzione di gravidanza; e che (allora come oggi) l’aborto deve avvenire nei primi mesi di gravidanza, quando il feto non ha ancora acquisito «senso, o vita». Insomma, le odierne leggi sono più in sintonia con il pensiero del pagano Aristotele che con quelle della Chiesa cattolica.

Nel capitolo successivo, il filosofo si occupa ancora delle anime e dei corpi dei fanciulli e del modo di plasmarli per farne cittadini modello, ma entrare nei dettagli ci porterebbe troppo lontano. Passiamo piuttosto ad alcune considerazioni. Risibile è a nostro avviso qualsiasi critica all’idea di “progettare” e “creare” i cittadini, in nome di una presunta libertà meta-fisica dell’essere umano, dal momento che, da che mondo è mondo, tutti noi siamo stati puntualmente socializzati (plagiati?) dalle strutture sociali – famiglia, scuola, legge, chiesa, ecc. – che abbiamo trovato ad attenderci. Soprattutto le religioni organizzate sono le ultime che possono avanzare una critica di questo genere, considerando che instillano le loro dottrine in bambini in tenera età, con la complicità dei genitori, senza lasciare nessuna possibilità di scelta o quasi all’essere umano. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che la maggioranza degli italiani, dei polacchi e dei filippini è cattolica, che la maggioranza dei sauditi, dei siriani e degli iraniani è musulmana, che la maggioranza degli indiani e induista, e via dicendo. Il plagio religioso è profondo e implacabile.

La specificità della politica aristotelica non e quindi nell’idea di plasmare il carattere del cittadino, perché questo aspetto accomuna tutte le società. È indubitabile che alcune società siano più liberali di altre, ma non esiste società che non imponga valori e comportamenti ai propri componenti. Piuttosto, la peculiarità della dottrina aristotelica è proprio nella sua dimensione biopolitica, ossia nella volontà di creare il cittadino, nella sua costituzione fisica oltre che spirituale, secondo un progetto scientifico. È dunque al tipo umano che Aristotele vuole “creare” che dobbiamo prestare attenzione. Non sorprendentemente, scopriamo che la biopolitica aristotelica è tesa alla creazione di uomini sani, forti, coraggiosi, intelligenti, longevi, saggi. È la lista delle virtù pagane.

Si dirà che quelle di Aristotele sono solo opinioni personali. Questo è vero, ma sono opinioni che hanno un peso storico notevole, se solo si considera che fu precettore di Alessandro il Macedone, il fondatore dell’impero ellenistico.

5. L’ordine tecnico-scientifico: la rivoluzione ellenistica

Ci sono leggende che sono dure a morire. Sopravvivono anche di fronte a una massa di imponente scoperte storiche e archeologiche che le confutano. Sopravvivono per pigrizia intellettuale o per interesse ideologico. Una di queste leggende è il paradigma della crescita lineare della tecnica – ovvero, l’idea che si passi gradualmente e inesorabilmente da uno stato meno avanzato tecnicamente ad uno più avanzato, quasi che la tecnica non fosse anche una questione politica e culturale, quasi che non rimandasse ad una volontà, ma semplicemente a un istinto pari in tutti gli uomini. È una leggenda che crolla di fronte alle prime obiezioni. Considerando che proveniamo tutti dallo stesso ceppo africano, perché nel XXI secolo troviamo civiltà tecnologicamente avanzate e altre ancora ferme al neolitico? Perché all’interno delle società tecnologicamente avanzate ci sono masse di tecnofobi? Perché certe aree si deindustrializzano? Sono fatti macroscopici. Eppure, queste anomalie non sono viste da chi accetta il paradigma della crescita lineare e inesorabile della tecnica. È un ulteriore caso che conferma l’intuizione di Thomas Kuhn, per cui riusciamo a vedere certi “fatti” solo ponendoci fuori dal paradigma dominante in cui siamo stati socializzati.

Corollario di questo paradigma è che nell’età classica (pagana) c’era un po’ più tecnologia rispetto all’età preistorica, ma certamente meno rispetto all’età medioevale (cristiana). Mentre, nell’età moderna la tecnologia avrebbe fatto un ulteriore passo avanti rispetto al medioevo.

Donde nasce questa visione lineare del progresso? Il concetto di progresso viene formulato da Condorcet 57 e da altri illuministi, ma la vena polemica che li oppone al cristianesimo permette ad essi di evitare una visione del tutto lineare dello stesso. Il Medioevo viene infatti rappresentato come l’Età Oscura della ragione e dell’umanità. La pregiudiziale nei confronti del Medioevo cristiano cade con il positivismo, dato che Auguste Comte mostra una certa ammirazione per l’ordine medioevale – pur considerandolo definitivamente superato. Col positivismo si consolida l’idea dello sviluppo lineare e unidirezionale 58 dell’umanità. Questa visione risulta comoda a molte ideologie. Fa comodo ai cristiani che si rifiutano di vedere la propria egemonia culturale come la causa prima o concomitante del regresso civile che ha investito il mondo occidentale, con la fine del paganesimo. Fa comodo anche ai comunisti, perché nella filosofia della storia marxiana non assistiamo semplicemente ad una successione di ere egualmente buone o cattive, ma ad una legge storica che conduce l’umanità a liberarsi progressivamente delle proprie catene. Se si accetta l’idea che ci sono alti e bassi nella storia che cosa garantisce che il socialismo a venire sarà migliore del capitalismo?

Oltre a questi aspetti ideologici entrano in gioco altri fattori, come la specializzazione esasperata del mondo accademico, a partire dal XIX secolo. Avendo separato gli studi classici dagli altri settori disciplinari ed avendoli affidati a letterati e umanisti, diventava inevitabile la scomparsa della scienza greca. Non poteva essere vista da studiosi che non erano interessati a vederla o non potevano capirla. Il giudizio lapidario dell’ellenismo come periodo di decadenza culturale non poteva essere cucito addosso a questa era che da filologi enormemente interessati al teatro, alla letteratura, alla poesia, all’arte e alla filosofia, ma incapaci di vedere la bellezza e l’importanza della matematica, della fisica, dell’astronomia, della medicina e della meccanica. Questa per loro non era cultura.

Eppure lo studio dei miti, della religione e della filosofia greca avrebbe dovuto accendere una spia. Possibile che una civiltà che riconosce un ruolo importante alla tecnica nell’ambito di queste espressioni culturali – in misura non paragonabile alla cultura giudeo-cristiana – non abbia anche prodotto un rilevante corrispettivo reale, concreto, materiale della tecnica?

Una serie di scoperte archeologiche e di studi storici, tra i quali spicca-no i contributi di Lucio Russo 59 , mostrano inequivocabilmente che il mondo pagano ellenistico aveva raggiunto un livello scientifico e tecnologico superiore non solo al Medioevo, ma anche al Rinascimento e agli esordi dell’Età Moderna. Certi oggetti che abbiamo rivisto solo in età contemporanea erano già esistenti nel IV secolo a.C., ad Alessandria d’Egitto e in altre città dei regni ellenistici. Poteva infatti capitare anche allora, entrando in un edificio, di essere accolti da porte che si aprivano da sole, oppure di dissetarsi infilando cinque dracme in un distributore automatico di bibite, o di assistere ai movimenti di automi umanoidi, o a possenti gru che sollevano materiali imponenti, a fari marittimi colossali visibili a decine di chilometri di distanza, a macchine da guerra ingegnose e devastanti, a navi colossali capaci di effettuare traversate oceaniche, e ad ogni sorta di macchine mosse da energia idraulica o dal vapore, da sofisticati ingranaggi e leve.

L’idea dello sviluppo lineare della tecnica sopravvive anche perché è stata fatta propria da grandi nomi della cultura, quando ancora non erano disponibili tutte le fonti storiche e archeologiche di cui oggi disponiamo. Nella Sociologia del sapere, Max Scheler ricondusse l’origine della disanimazione e razionalizzazione della Natura al monoteismo creazionistico giudaico-cristiano, che «nessun greco e nessun romano, nessun Platone e nessun Aristotele conobbero» 60 . In un altro classico della letteratura sociologica, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Max Weber indicò il profetismo ebraico come sorgente del “disincanto del mondo”. Trattandosi di fonti autorevoli, non stupisce il successivo consolidarsi di questo luogo comune. Anche Aldo Schiavone, in Storia e destino – un libro di cui peraltro condivido quasi ogni parola, cosa che raramente accade – sembra restare nel solco di questa prospettiva. Afferma infatti che «sarebbe una ricerca bellissima raccontare come il pensiero della Chiesa abbia partecipato per un verso a quella rimaterializzazione della natura che, dopo la fine del mondo antico, avrebbe portato alla nascita della scienza moderna e del suo nuovo rapporto con la tecnica». 61

Peccato che la rivoluzione scientifica sia avvenuta almeno tre secoli prima di Cristo – e dunque sei o sette secoli prima che la Chiesa cattolica avesse un qualsiasi ruolo politico e culturale. E che già allora fosse stato perfettamente compreso il rapporto tra scienza e tecnica. 62 Ci vorrà tempo perché questa nozione diventi patrimonio comune, considerando che si fonda su studi storici e archeologici piuttosto recenti, fioriti soprattutto negli ultimi quindici anni. Ma, proprio per questa ragione, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo a ristabilire la verità storica.

5.1. Il metodo scientifico e le “matematiche”

C’è un libro che abbiamo letto tutti. Lo ha scritto un grande scienziato alessandrino: Euclide. I suoi Elementi di geometria hanno avuto più edizioni della stessa Bibbia. Mentre la Bibbia è patrimonio culturale della cristianità (un miliardo circa di persone), gli Elementi sono patrimonio dell’umanità (sei miliardi di persone). Mentre la Bibbia viene letta poco dagli stessi cristiani – scherzosamente, si dice che la conoscono meglio gli atei – gli Elementi sono letti anche in Cina e in India. Gli Elementi sono obbligatori; li studiamo alla scuola dell’obbligo. La Bibbia è facoltativa. Gli Elementi vengono letti sempre più, con la crescita della scolarizzazione in Africa, Asia e America Latina. La Bibbia viene letta sempre meno.

Sappiamo benissimo che il mondo pagano ha espresso grandi menti filosofiche e scientifiche nel periodo classico (Pitagora, Talete, Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Democrito, Epicuro, Ippocrate, Socrate, Platone, Aristotele, ecc.), nel periodo ellenistico (Euclide, Archimede, Erofilo, Ipparco, Eratostene, Aristarco di Samo, Apollonio di Perga, ecc.), e nel periodo imperiale (Vitruvio, Erone, Galeno, Tolomeo, Ipazia, ecc.). Questi intellettuali hanno scoperto o formulato idee, concetti, teorie, teoremi, osservazioni, e leggi scientifiche che ancora oggi sono considerate valide e si studiano a tutti i livelli di istruzione. Ci limitiamo a qualche esempio: l’aritmetica a base decimale di Pitagora e il teorema eponimo; l’ipotesi atomistica di Democrito; l’idea della sfericità della terra e i principi di logica di Aristotele; la curva di quart’ordine intersezione di un cilindro e di un cono quadrici, la duplicazione del cubo, la meccanica razionale, gli studi della vite e della carrucola di Archita; la patologia di Ippocrate; l’idrostatica, i principi di meccanica, le regole per il calcolo di superfici e volumi nelle figure solide, nonché i metodi per risolvere le equazioni cubiche di Archimede; lo studio delle coniche di Apollonio; l’oftalmologia di Erofilo; la geometria assiomatica e l’ottica di Euclide; la trigonometria e il sistema eliocentrico di Aristarco di Samo; la trigonometria ed il calcolo corretto della circonferenza della terra di Eratostene; la precessione degli equinozi, la trigonometria ed il calcolo della distanza terra-luna di Ipparco; la catottrica, i principi di meccanica e di idraulica di Erone.

Ma c’è molto di più. La Biblioteca di Alessandria d’Egitto conteneva più di mezzo milione di libri di medicina, fisica, astronomia, chimica, meccanica, filosofia, astronomia, logica, matematica, arte, letteratura. 63 Eppure, si sente ancora ripetere la favola che il mondo civile, scientifico, tecnico, industriale è un derivato del cristianesimo. 64 Imre Lakatos sfidava i cattolici a trovare almeno due nomi tra gli “uomini di scienza” del medioevo che potessero essere messi al pari dei grandi scienziati dell’antichità pagana e dell’età moderna. 65

Ma se il fenomeno è di queste dimensioni, come può passare inosservato? Tutti abbiamo letto Euclide. Ma ci siamo mai chiesti chi fosse costui? In che ambiente culturale viveva? Ce lo hanno mai raccontato a scuola, piuttosto che metterci davanti agli occhi i cinque postulati come se fossero piovuti dal cielo? Euclide era uno scienziato molto rispettato nella sua epoca, tanto che persino il re Tolomeo I si era rivolto a lui per apprendere la geometria. Inoltre, non limitava i suoi studi alle scienze analitiche. «Una delle prime teorie scientifiche ellenistiche fu l’“ottica” (…), cioè la “scienza della visione”. Il primo trattato noto sull’argomento è l’Ottica di Euclide. (…) La nascita dell’ottica illustra bene in cosa consista la novità del metodo scientifico. Il termine “raggio visuale” era di uso molto antico e la legge della propagazione rettilinea dei raggi visuali era ben nota. Platone, ricordando che la grandezza con cui gli oggetti appaiono dipende dalla distanza, afferma che a tali apparenze non spetta alcun valore di verità; si tratta di inganni, mentre le grandezze “vere” sono quelle che, in quanto misurabili, possono essere oggetto di scienza. Nell’Ottica di Euclide, fondando su poche assunzioni una catena di teoremi, si mostra invece come anche le percezioni visive possano essere analizzate con il metodo scientifico». 66

Molti storici di formazione umanistica sono stati ingannati dal fatto che per millenni sono state chiamate “matematiche” non solo le scienze analitiche, ma anche tutte le scienze empiriche che fanno uso di numeri e formule. In questa categoria cadevano dunque non solo l’aritmetica e la geometria, ma anche la fisica e l’astronomia. Perciò era possibile riconoscere ai Greci l’eccellenza nelle matematiche, senza comprendere che quelli che parevano “esercizi” erano in realtà leggi fisiche e calcoli astronomici. Nel contempo, includendo nella fisica solo ciò che era così denominato, la si riduceva agli studi qualitativi di Aristotele e poco altro. 67

Alcuni studi di Archimede nel campo di quella che oggi chiamiamo “fisica” erano ineccepibili sul piano del metodo scientifico e le leggi scoperte sono ancora oggi ritenute valide. Quel metodo scientifico la cui elaborazione si vuole attribuire a Galileo era in realtà ben conosciuto da Euclide e Archimede. Così come erano noti a Galileo alcuni trattati degli scienziati ellenistici, perduti e ritrovati a più riprese. Russo ci ricorda che «il fondamentale lavoro di Archimede Sul metodo fu fortunosamente scoperto nel 1906 da Heiberg (nel famoso palinsesto successivamente perduto e ritrovato nel 1998)». 68

Russo mette anche a confronto l’approccio al problema del moto di Aristotele e quello di Archimede. Lo Stagirita scrive: «Se, poi, [la forza] A muoverà B nel tempo T secondo la lunghezza L, la metà di A, cioè E, non muoverà B nel tempo T né in una parte del tempo T secondo una parte della lunghezza L che sia rispetto all’intero L nella stessa proporzione in cui è la forza A rispetto alla forza E. […] se fosse altrimenti, un uomo solo muoverebbe una nave, qualora venissero numericamente divise la forza di quelli che la tirano a secco e la lunghezza secondo cui tutti la muovono». 69

Archimede si pone verso il problema con un metodo diverso, dimostrativo e sperimentale (o progettuale), che gli consente di confutare questa conclusione di Aristotele. «La confutazione dell’argomentazione aristotelica da parte di Archimede, secondo una tradizione riferita da Plutarco e da Proclo, fu molto persuasiva. Archimede avrebbe progettato, all’interno della sua teoria della meccanica, un congegno con il quale un uomo solo (se stesso o, secondo altre fonti, il sovrano Gerone II) sarebbe riuscito a spingere in acqua una nave tirata in secco nel porto di Siracusa (secondo Proclo si sarebbe trattato addirittura di un trealberi a pieno carico). La macchina effettuava proprio quella divisione della forza che Aristotele aveva giudicato impossibile e che, in effetti, nel caso particolare della nave probabilmente non aveva precedenti. Era un modo chiarissimo di dimostrare la superiorità del metodo “scientifico”». 70

Quello che noi vogliamo però sottolineare, con questo esempio, va oltre le intenzioni di Russo (che è soprattutto impegnato a dimostrare la superiorità della scienza ellenistica rispetto alla filosofia ellenica). Noi stiamo mettendo a confronto la visione del mondo greco-romana o pagana con quella giudeo-cristiana o monoteista. È senz’altro vero che Archimede va oltre Aristotele, nella soluzione del problema fisico delle forze e dei moti, ma entrambi parlano lo stesso linguaggio, si muovono nello stesso orizzonte di pensiero razionale, empirico, quantitativo, volto alla spiegazione e alla previsione di fenomeni naturali.

Si devono piuttosto mettere a confronto i ragionamenti di Aristotele e Archimede con certe affermazioni che si trovano nell’Antico Testamento o nei Vangeli. Laddove nelle punte più alte della cultura giudaica operano la fede, il miracolo e la benevolenza divina, nelle punte più alte della cultura pagana operano la ragione, la scienza e la tecnica. Le teorie di Aristotele e Archimede, pur essendo diverse, sono commensurabili. E sono commensurabili perché attribuiscono lo stesso altissimo valore alla sapienza, alla conoscenza empirica, all’argomentazione razionale o dimostrativa, al calcolo. Non così si può dire dei profeti biblici o dello stesso Gesù, che pretendono di essere creduti aldilà di qualsiasi prova empirica o razionale. Gli esempi si sprecano. La pretesa di “un segno” viene da Gesù definita una perversione dei tempi 71 (e siamo tre secoli dopo la rivoluzione scientifica ellenistica e sei secoli dopo Pitagora!). In modo simile è percepito il dubbio di San Tommaso riguardo alla resurrezione. 72 In entrambi i casi i segni vengono poi offerti, ma stigmatizzando la stessa richiesta come perversa. “Beato chi crede senza prova” è la pura e semplice negazione della mentalità scientifica pagana. Non a caso, nel Cristianesimo delle origini, la salvezza viene negata ai sapienti e concessa invece ai poveri di spirito, ai semplici, agli ignoranti. 73

5.2. La medicina dei greci e i miracoli dei cristiani

Il caso della medicina è ancora più pregnante, perché anche nei Vange-li si parla spesso di malattie, salute, e guarigioni. Dunque, procedendo alla comparazione delle culture, non siamo semplicemente di fronte a due inte-ressi divergenti e incommensurabili, ma a due approcci diversi allo stesso problema. Nell’economia del nostro discorso, la questione della salute è significativa a maggior ragione, dato che ci occupiamo di biopolitica.

L’approccio giudeo-cristiano al problema della salute è tutto interno a una prospettiva magico-religiosa. Da un lato la malattia è vista come flagello di Dio. Nei Salmi (106: 29) si legge per esempio: «Irritarono Dio con le loro azioni, e una pestilenza scoppiò tra loro». D’altro canto, viene offerta una consolazione ai sofferenti, con la promessa del regno dei Cieli: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati» (Matteo, 5: 4). Ma oltre alla ricompensa ultraterrena, si offre anche una speranza di guarigione terrena, affidata ai miracoli di Gesù e dei suoi apostoli. Nel passo dei Vangeli che sembra indicare più di ogni altro la missione della comunità cristiana o della Chiesa, le guarigioni e gli esorcismi occupano un ruolo centrale.

1 Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità.
2 I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, 3Filippo e Bartolomeo, Tomma-so e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, 4Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì.
5 Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti:
“Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piut-tosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni” (Matteo, 10: 1-8).

Si può notare che Gesù trasmette ai suoi seguaci un “potere magico”, non conoscenze scientifiche. Ancora oggi, la santità viene attribuita in base a guarigioni miracolose compiute dal candidato santo. Si sta per esempio discutendo, in questi giorni, la fondatezza di varie guarigioni miracolose attribuite a Giovanni Paolo II, al fine di avviare il processo di beatificazione. Dunque, non si può invocare un’interpretazione simbolica dei miracoli. I cattolici ci credono veramente. Lourdes ne è un esempio lampante. Essi distinguono concettualmente i miracoli dalla magia e della superstizione, perché ritengono reali le potenze soprannaturali (Dio, angeli, santi) che invocano, ma agli occhi di chi accetta una concezione scientifica del mondo non c’è differenza alcuna.

Ancora più interessante il fatto che Gesù non promuove un approccio universalista o cosmopolita, ma piuttosto etno-identitario. Solo gli Israeliti devono essere aiutati, non i Pagani o i Samaritani. Una conferma si trova nel prosieguo del Vangelo di Matteo, quando Gesù si rifiuta di aiutare una donna cananea (dunque non semita, ma camita, “africana”) e arriva a paragonare gli Ebrei ai “figli” e i Cananei ai “cani”. Non si toglie il pane ai figli per darlo ai cani. Solo quando la donna accetta il paragone al cane, chiedendo solo le briciole, Gesù esaudisce la sua richiesta. Si potrebbe interpretare il passo nel senso che Gesù sta insegnando agli apostoli a moderare il razzismo, a non essere intransigenti, ad aiutare anche le “razze inferiori”, specialmente quando si umiliano accettando la propria inferiorità. L’interpretazione è però zoppicante, perché sono proprio i discepoli a implorare Gesù, affinché aiuti la donna. Dunque, semmai il contrario. 74

Veniamo ora ai pagani. Certamente, anche nell’Antica Grecia era diffuso il razzismo. Per esempio, Aristotele sostiene la tesi che si nasce schiavi o padroni, per natura, e che i Greci nascono padroni. Tuttavia, le cure non vengono negate per principio agli schiavi. Ippocrate lo mette nero su bianco nel suo Giuramento, quando scrive: «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi».

Ippocrate di Cos è una figura centrale nella storia della medicina, al punto che è da molti considerato il “padre” di questa disciplina. Questo accade perché Ippocrate, a differenza dei predecessori, in un libro sull’epilessia (intitolato Malattia sacra e incluso nel Corpus Hippocraticum) sostiene con vigore la tesi che la malattia e la salute di una persona dipendono da specifiche circostanze ambientali e fisiologiche e non da superiori interventi divini, per cui vano è ricorrere a spiegazioni superstiziose o a rimedi magici. Oltre a prestare grande attenzione al clima, alle condizioni di vita, all’alimentazione, il medico di Cos si dedica anche allo studio dell’anatomia e della patologia. Attraverso la dissezione dei cadaveri perviene alla sua nota teoria degli umori (sangue, bile gialla, bile nera, flegma), che in un corpo sano sono supposti essere in equilibrio. Introduce inoltre tutta una serie di concetti e strumenti che ancora oggi fanno parte del bagaglio professionale del medico (cartella clinica, sintomatologia, diagnosi, prognosi, ecc.). Non ci dilunghiamo sull’argomento, dato che queste informazioni sono facilmente reperibili in qualsiasi enciclopedia. Ci limitiamo a sottolineare il contrasto tra l’approccio evangelico e quello ippocratico, ricordando che Ippocrate è vissuto quattro secoli prima di Cristo.

È interessante il fatto che, oggi, i cristiani si richiamano al codice etico di questo pagano, per negare la liceità di eutanasia e aborto, piuttosto che agli insegnamenti di San Tommaso d’Aquino – che invece era aristotelicamente aperto alla possibilità di interrompere la gravidanza nei primi mesi. Nel Giuramento si legge infatti: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Premesso che aborto ed eutanasia non sono elementi essenziali di una politica del miglioramento biologico (oggi ancora meno che nell’antichità, visto che si può operare direttamente sulla linea germinale dell’embrione, in fase di procreazione artificiale), va anche detto che questa affermazione di Ippocrate non si presta ad una interpretazione univoca. Bisogna infatti ricordare che, all’epoca (e per molti secoli a venire), l’aborto era praticato con interventi meccanici: pressioni sul ventre, posture innaturali, violenti esercizi fisici, operazioni chirurgiche, ecc. Ippocrate non sta dicendo che nessuno deve provocare interruzioni di gravidanza e nemmeno che lui si asterrà dal provocarle. Sta dicendo solo che non le praticherà con un medicinale abortivo. Possiamo anche pensare che ci fossero in Grecia praticoni o ciarlatani che somministravano pozioni a fini abortivi e che egli – essendo medico scientificamente orientato – giudicava inefficaci o pericolose per la salute della donna.

Poco più avanti, nello stesso documento, egli dice infatti che non opererà «coloro che soffrono del male della pietra (calcolosi o litiasi, nda)», ma non perché fosse contrario eticamente a questi interventi chirurgici, piuttosto perché non li giudicava di competenza del medico. Infatti aggiunge: «ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività». Non si deve scordare che solo recentemente si è preteso che il chirurgo fosse anche medico. Fino all’età moderna, la chirurgia era praticata dai barbieri, i quali disponevano in effetti dei ferri del mestiere.

In ogni caso, anche ammesso che Ippocrate avesse un’opinione diversa dai filosofi e dai politici del suo tempo, a riguardo dell’aborto e all’eutanasia, resta il fatto che era sufficientemente libertario per limitarsi a dire «io mi asterrò», piuttosto che pretendere un divieto di legge imposto a tutti. Anche questo ci dice qualcosa di significativo sul mondo pagano.

Un altro illustre medico dell’antichità è Erofilo di Calcedonia, fondatore della scuola medica di Alessandria d’Egitto. È molto più avanti dello stesso Ippocrate nella fondazione di una “medicina scientifica”, per quattro ragioni fondamentali: a) mostra una consapevolezza epistemologica e metodologica notevole, concependo le teorie come costrutti teorici ed evitando quindi la trappola del realismo ingenuo; b) procede a studi empirici sistematici, effettuando dissezioni di cadaveri ed esperimenti sugli animali; c) fonda sottodiscipline della medicina come l’anatomia, la fisiologia, l’oftalmica, ecc.; d) arricchisce il linguaggio tecnico della medicina con l’introduzione di numerosi neologismi ancora oggi in uso (duodeno, digiuno, ecc.).

Russo sottolinea soprattutto l’importanza del quarto elemento, ricordando che per arrivare a concepire neologismi era necessario superare un secondo grande ostacolo epistemologico, paragonabile per effetti alla concezione superstiziosa della malattia: l’idea dei “nomi naturali delle cose”. Se si è convinti, come molti popoli del passato, che ogni “cosa” abbia un proprio nome naturale, attribuito ad essa magari da entità divine, diventa difficile o impossibile vedere, capire, catalogare nuovi oggetti, fenomeni, processi. Aprendo un cadavere si vedranno solo gli organi che hanno già un nome. Ma per il progresso della medicina, come di ogni altra scienza, è fondamentale la creazione convenzionale di nuovi termini-concetti, i mattoni delle teorie.

È significativo anche il fatto che Erofilo si ispira, per l’elaborazione di nuovi termini e concetti, alle opere degli ingegneri meccanici, concependo dunque il corpo umano come una macchina. Si nota un interscambio di idee tra gli ingegneri impegnati nello studio della meccanica dei fluidi, dell’idraulica e della pneumatica, e i medici che studiano gli apparati circolatorio e respiratorio. Il concetto di valvola cardiaca potrebbe derivare dall’invenzione della valvola meccanica. O viceversa. La sinergia tra medicina e meccanica trova un ottimo esempio anche nella macchina fatta costruire da Andrea, medico personale di Tolomeo IV Filopatore, per ridurre le lussazioni degli arti, rimasta famosa nei secoli successivi.

Erofilo per primo studia il sistema nervoso e comprende la funzione del cervello e la differenza tra nervo sensore e nervo motore. 75 Si tratta di una scoperta fondamentale, sulla quale si basa oggi la costruzione di arti elettromeccanici pilotati direttamente dal cervello. Erofilo aveva poi studiato l’apparato digerente, comprendendo la funzione del fegato e di vari tratti dell’intestino. Insieme ad altri grandi medici, come Erasistrato e Prassagora di Cos, aveva anche fondato l’anatomia vascolare, distinguendo la funzione di vene e arterie, e descrivendo il funzionamento del cuore. Descrive poi i sintomi di alcune malattie mentali e si occupa anche di patologia (ovvero di medicina in senso stretto). Racconta Russo che «egli introdusse, in particolare, quello che per oltre duemila anni rimase uno dei principali strumenti di diagnosi: la misura della frequenza del battito, della quale aveva notato la correlazione con la temperatura corporea e con l’età. Per misurare il battito dei suoi pazienti Erofilo si era fatto costruire, se-condo quanto riferisce Marcellino, un orologio ad acqua tarabile in base all’età del malato». 76

Dedica poi un intero trattato all’occhio. Lo scritto è andato perduto, ma i contenuti ci sono in parte noti grazie alle citazioni in altre opere. «Si deve a lui la prima descrizione della retina, cui diede il nome arachnoides (“simile a una ragnatela”), e di altre tre membrane, probabilmente da identificare con la sclera (e cornea), l’iride e la coroide». 77 È interessante notare che la guarigione miracolosa dei ciechi giocherà un ruolo importante, tre secoli più tardi, nei Vangeli 78 . A che punto era la medicina sviluppata dai Greci in Egitto?

La peculiarità della scienza ellenistica era la convergenza delle conoscenze e delle tecnologie: l’oftalmologia progrediva insieme all’ottica. «La stretta relazione tra ottica e oftalmologia risulta anche dalla lettura di Archimede: nel passo dell’Arenario in cui discute la misura della grandezza apparente del Sole Archimede misura preliminarmente il diametro della pupilla». 79 Inoltre, certi passi dell’Ottica di Euclide fanno pensare che egli fosse a conoscenza degli studi dei medici alessandrini su nervi sensori, sulla struttura reticolare della retina e sui fotorecettori. «Per costruire un modello matematico della visione, è allora naturale considerare un insieme discreto di “raggi visuali”: uno per ciascun elemento strutturale attivo della retina. In questo modo si può formulare una teoria che spieghi quantitativamente il potere risolutivo dell’occhio umano». 80

Ma gli scienziati alessandrini non si limitavano alla teoria. Se Aristotele, nelle Categorie, sostiene che sono possibili solo le trasformazioni dal possesso alla privazione, e non viceversa, perché un vedente può perdere la vista, ma un cieco non può riacquistarla, Crisippo – matematico del III secolo a.C. – lo smentisce citando l’operazione alle cataratte. Il progresso della medicina alessandrina permette persino il recupero della vista ai ciechi. Operazione che non poteva non apparire miracolosa, ai popoli privi di scienza.

Questo tipo di operazione è stata svolta per molti secoli. Per esempio, ci sono testimonianze che Demostene Filalete, della scuola di Erofilo, la eseguiva ancora nel I secolo d.C. Abbiamo inoltre prove storiche e archeologiche della diffusione della medicina greca in tutto l’Impero Romano, dove – oltre a medici generici – esistevano specialisti e in particolare: oculisti, dentisti, otorino-laringologi e chirurgi. Uno studio archeologico di Nicholas Summerton non lascia dubbi in proposito agli sviluppi dell’oculistica in Inghilterra: «I ritrovamenti archeologici di etichette relative a medicine per l’occhio, descrizioni di occhi con relazioni di malattie provenienti dal forte romano di Vindolandia suggeriscono che le malattie oculari ricevevano una particolare attenzione all’interno della Britannia Romana». 81 Sono infatti stati ritrovati vari colliri, con tanto di etichetta, per la cura farmacologica della congiuntivite e altre affezioni dell’occhio, nonché attrezzi chirurgici, in particolare aghi, per l’operazione della rimozione delle cataratte.

Del resto, ci conferma anche Celso che i medici romani operavano le cataratte. Nel De Medicina, illustra così il procedimento: «Si prende un ago sufficientemente appuntito perché possa penetrare, ma non troppo sottile; questo viene inserito direttamente attraverso le due superfici esterne. Quando viene raggiunto il punto preciso, l’ago viene inclinato… e dovrebbe essere ruotato delicatamente e un poco per volta».

È con la diffusione del Cristianesimo nell’Impero che di queste conoscenze si perde traccia. Sulla scorta degli insegnamenti evangelici, si torna a concepire la malattia come demone e la guarigione come intervento divino. Da veri uomini di fede, i cristiani concepiscono le preghiere al proprio Dio come la terapia più efficace per qualsiasi malattia. L’imposizione delle mani e le unzioni con olio santo rimpiazzano perciò le ricerche scientifiche, ormai considerate inutili. Naturalmente, qualche eredità del mondo greco-romano rimane anche nel medioevo e non si possono attribuire tutte le colpe del regresso scientifico ai cristiani, visto che giocarono un ruolo anche le invasioni barbariche, le pestilenze e le carestie. Tuttavia, chi vuole agganciare la medicina al giudeo-cristianesimo (appellandosi alla pietas per il malato, il sofferente) deve arrampicarsi davvero sugli specchi. Ci sarà pure stata la pietas cristiana, nel medioevo, ma senza mezzi razionali non si raggiunge alcun fine. E se tanta attenzione i pagani dedicavano alla medicina e alla cura dei malati, significa che la pietas non era affatto esclusiva dei cristiani.

Qui ci fermiamo. Celso meriterebbe un cenno più ampio. E dovremmo ancora parlare di Galeno, altro grande medico e scienziato greco, originario di Pergamo e vissuto alla corte imperiale di Marco Aurelio. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano, mentre la tesi che stiamo sostenendo ha già trovato sufficienti e solidi argomenti.

In sintesi, mentre nei Vangeli, nel I secolo d.C., si narra di guarigioni miracolose dovute all’imposizione delle mani o alla parola del Messia, nel mondo pagano, a partire dal IV secolo a.C. si studiava l’occhio nelle sue componenti – retina, fotorecettori, nervo ottico, cornea, sclera, iride, coroide – e si curavano le affezioni della vista con rimedi chirurgici e farmacologici. Erofilo non poteva essere più chiaro quando concluse che: «Sono le medicine le mani degli Dèi».

5.3. Le arti meccaniche

Quella che abbiamo qui denominato “rivoluzione biopolitica” si fonda sulla volontà di superare i limiti biologici dell’uomo. Deve però essere chiaro che tale superamento non trova alimento solo nelle discipline mediche o biologiche (come la genetica, la chirurgia, la farmacologia), ma anche nelle discipline ingegneristiche (come la meccanica, l’elettronica, la chimica, l’informatica). Perciò, oggi, si ritagliano un ruolo sempre maggiore le discipline ibride o di confine – come l’ingegneria biomedica, biochimica, biomeccanica, bioinformatica – nate dalla convergenza dei due grandi gruppi disciplinari.

Dobbiamo allora vedere se nel mondo pagano troviamo anche le radici della cibernetica, ovvero della disciplina che trattando come “sistemi in grado di autoregolarsi” tanto le macchine organiche viventi quanto le macchine inorganiche costruite dall’uomo, fornisce le basi teoriche per convergenza delle tecnologie wet e dry.

Le recenti ricerche sulla tecnologia ellenistica hanno risolto un enigma: come faceva Leonardo da Vinci a disegnare macchine la cui realizzazione non era ancora tecnicamente possibile? Finora la spiegazione era il genio: Leonardo sarebbe stato un visionario, un uomo del futuro nato troppo presto. Sul fatto che Leonardo fosse un uomo di genio non nutriamo dubbi, tuttavia, pare che molte delle macchine che disegnava, senza capirne del tutto i dettagli e senza avere la possibilità di realizzarle, provenivano da libri importati dall’Impero d’Oriente. 82 Essendo, come lui stesso diceva, omo sanza lettere (nel senso che non comprendeva il greco), ed essendo la matematica e la meccanica ellenistiche troppo complicate per gli umanisti in grado di tradurre, non restava che arrovellarsi sui problemi guardando i disegni e riproducendoli.

In particolare Leonardo si dedicò alla lettura di Archimede. Un suo noto aforisma sulla conoscenza («Chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà silenzio alle contradizioni delle sofistiche scienzie, colle quali s’impara uno eterno gridore») si comprende ricordando che “le matematiche” sono tutte le scienze che fanno uso di numeri e formule. Leonardo pensava, dunque, anche alla meccanica. «Alcuni dei libri letti da Leonardo su Archimede dovevano contenere informazioni oggi non più disponibili. Leonardo descrive e disegna un cannone a vapore, che chiama architronico, altrimenti sconosciuto, attribuendone l’invenzione ad Archimede e mostra di conoscere notizie biografiche, riguardanti sia un soggiorno di Archimede in Spagna sia particolari sulla sua sepoltura, sui quali non siamo altrimenti informati». 83

Anche in assenza di questi libri, andati purtroppo perduti, Archimede resta un gigante nel campo della meccanica teorica e applicata. Aldilà dei leggendari specchi ustori con i quali avrebbe incendiato la flotta che assediava Siracusa, o l’immaginaria leva con la quale avrebbe sollevato il mondo, se solo qualcuno gli avesse dato un punto d’appoggio, Archimede ha prodotto invenzioni e scoperte che sono ancora materia di studio nei moderni politecnici, anche quando il suo nome non viene citato. Ma potremmo ricordare anche Archita, Ctesibio e, in epoca più tarda, Erone. Per esemplificare la tecnologia ellenistica, scrivevo in Etica della scienza pura:

Basti citare la balestra automatica costruita negli arsenali di Rodi, che aveva una potenza di fuoco superiore alle prime armi da fuoco; oppure l’altare di Ctesibio, che si spegneva automaticamente dopo un certo periodo di tempo. Certamente l’attenzione degli storici della scienza è stata attratta dalle macchine inventate da Erone, il più celebre degli ingegneri ellenistici. Nella sua opera più nota, la Meccanica, Erone mostra di conoscere la ruota dentata, la puleggia, il meccanismo degli ingranaggi ed il principio dell’espansione dell’acqua e dell’aria calda, che gli consentono di progettare automi semoventi, organi ad aria compressa, macchine che producono il rumore del tuono, carillon ad aria calda con uccellini che si muovono e cinguettano, orologi ad acqua con un allarme che suona all’ora prefissata, portoni che si aprono da soli grazie ad un complicato meccanismo legato all’accensione del fuoco dell’altare, ma soprattutto l’eolopila, una sfera che ruota sul proprio asse azionata dall’energia cinetica del vapore. Erone aveva quindi intuito ed applicato, seppure a scopi ludici, il principio della macchina a vapore.

Per costruire il colosso di Rodi, il Faro di Alessandria, i sistemi idrici dei regni ellenistici e le tante macchine da guerra usate dagli eserciti greci serviva una tecnologia scientifica. Plutarco racconta che, durante l’assedio di Siracusa del 212 a.C., Archimede «iniziò il tiro con le sue macchine, scagliando sulle forze terrestri ogni specie di dardi e di macigni […]. Alcune delle navi vennero agganciate da artigli di ferro e mediante un contrappeso sollevate e quindi colate a picco […]. Spesso si vedeva lo spettacolo pauroso di una nave sollevata in aria, fatta oscillare finché tutto l’equipaggio fosse stato scagliato via e scaraventata poi vuota contro le fortificazioni, o fatta ricadere in mare in seguito allo sgancio degli artigli».

Nello stesso periodo si registra anche la costruzione di navi commerciali e militari molto grandi, che necessita di cognizioni ingegneristiche piuttosto avanzate. Russo mette in luce che «uno degli stimoli ad aumentare le dimensioni delle navi da guerra, anche a scapito della manovrabilità, venne probabilmente dal diffondersi dell’artiglieria: vi fu infatti un crescente uso bellico di navi come piattaforme galleggianti su cui porre catapulte e altre macchine da guerra. L’aumento delle dimensioni riguardò anche le navi mercantili. Gerone II di Siracusa fece costruire una nave da trasporto, la Syracusia, che Moschione descrisse in un libro di cui Ateneo riporta ampi stralci. Sappiamo così che la nave, per la cui costruzione era stato impiegato legno sufficiente per sessanta quadriremi, aveva a bordo, tra l’altro, una palestra, una biblioteca, giardini pensili e venti stalle per cavalli». 84

I Greci, così come poi i Romani, oltre a distinguersi in tattica e strategia militare (si pensi alla fanteria oplitica, alla falange macedone, alla testuggine romana, ecc.), usavano anche sofisticate macchine da guerra. Ciò non stupisce, se si rammenta che la loro dea della guerra (Atena, Minerva) era anche dea della scienza e della tecnica. Per esempio, gli ingegneri ellenistici eccellevano nella costruzione di macchine da assedio. Erano imponenti costruzioni semoventi, alte fino a venti piani, dotate di catapulte e baliste in grado di scagliare proiettili incendiari, nonché di piastre di ferro a protezione dell’equipaggio e portelli sollevabili meccanicamente. È possibile che siano state queste macchine a decretare la fine dell’autonomia delle polis e la nascita di regni e imperi. L’unica possibilità di sopravvivenza per una città assediata era infatti il soccorso di un esercito “nazionale” proveniente dall’esterno. Molto dettagliati sono i racconti di Plutarco o Diodoro Siculo di battaglie dell’epoca. Questi racconti vanno comparati alle battaglie descritte nella Bibbia, dove il popolo ebraico si affidava ad armi più semplici e all’aiuto del “Signore degli eserciti”, più che alla strategia militare. Le mura di Gerico crollano al suono delle trombe, grazie a un rituale magico incentrato sul numero sette, e non sotto i colpi delle catapulte e delle macchine d’assedio ideate dagli ingegneri macedoni.

Non stupisce allora che i popoli semiti siano stati facilmente soggiogati dai popoli indoeuropei: Persiani, Greci, Romani. Gli invasori erano più “scientifici” nel loro approccio alla guerra e, tra l’altro, non necessariamente più spietati e violenti degli Israeliti – anzi molti racconti biblici oggi fanno inorridire. 85 Infatti, gli Israeliti mettevano in atto una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei popoli di razza diversa – indoeuropei (Ittiti) o camiti (Cananei, Evei, Ebusei, Amorrei, ecc.) – mentre “si limitavano” ad uccidere tutti i maschi e le donne non vergini nei popoli semitici. Al contrario, gli indoeuropei soggiogavano i popoli senza sterminarli. Naturalmente, qualche eccezione nella storia si trova sempre. Per esempio, Roma non lasciò pietra su pietra a Cartagine. Bisogna tuttavia porre la questione in termini generali. È un fatto che Dario il Grande, Alessandro il Macedone e Giulio Cesare costruirono imperi multietnici e multireligiosi, rispettando i culti locali e favorendo la convivenza tra le diverse etnie, mentre gli Israeliti ponevano molta attenzione alla purezza etnica e alla religione, al punto che i due aspetti risultavano indistinguibili. Il diverso atteggiamento in guerra poteva dipendere da una differente sensibilità etica, 86 o più probabilmente dal fatto che Persiani, Greci e Romani avevano eserciti così potenti e tecnologicamente avanzati che non temevano un ritorno in armi o una rivincita degli sconfitti.

La tecnologia più spettacolare sviluppata dagli ingegneri ellenistici fu quella degli automi, progenitrice della nostra robotica. «La costruzione di automi risaliva anch’essa al III secolo a.C. e più precisamente alla sua prima metà. Secondo Vitruvio (che cita come fonte i Commentari di Cte-sibio) gli orologi costruiti da Ctesibio potevano azionare automi a ore pre-fissate; nella descrizione di Callisseno della famosa parata organizzata da Tolomeo II Filadelfo si parla di una statua di Nisa seduta capace di alzarsi in piedi, fare libagioni di latte e rimettersi a sedere». 87

Un repertorio di macchine semoventi e umanoidi si trova nel trattato di Erone Sulla costruzione degli automi. Si badi che Erone di Alessandria era un contemporaneo di Gesù, dunque visse in periodo imperiale, ma i suoi trattati erano un compendio di invenzioni ereditate da periodi precedenti, alle quali aveva contribuito solo in parte con la propria inventiva. Per esempio, i meccanismi di retroazione (che sono la base dei servosistemi della cibernetica), risalgono certamente al precedente periodo ellenistico, dato che sono trattati in dettaglio nella Pneumatica di Filone di Bisanzio. È un’ulteriore prova che il periodo d’oro della rivoluzione scientifica si situa tra il IV e il III secolo a.C. Se volessimo decidere due date conven-zionali per circoscrivere il periodo d’oro della scienza potremmo allora indicare la fondazione di Alessandria d’Egitto da parte di Alessandro il Macedone nel 331 a.C. e la persecuzione dei Greci in Egitto nel 145 a.C. Sottolinea infatti Russo che «l’attività scientifica ad Alessandria cessò drammaticamente nel 145-144 a.C., quando vi fu una feroce persecuzione della classe dirigente greca da parte di Tolomeo VIII (Evergete II), appena salito al trono. Polibio dice che l’etnia greca della città di Alessandria ne fu quasi completamente distrutta; Ateneo dà una vivace descrizione della conseguente diaspora di intellettuali dalla città… Evergete II anche suc-cessivamente continuò a svolgere una politica ostile alla comunità greca di Alessandria, appoggiandosi all’elemento indigeno». 88

6. Conclusioni

Alla luce di quanto fin qui esposto, è comprensibile lo stupore di Luciano Pellicani 89 di fronte alle tesi di Max Weber e Max Scheler volte a ricondurre lo sviluppo della scienza e della tecnica in Occidente alla radice giudeo-cristiana. È curioso il fatto che la stessa tesi sostenuta da Scheler, che era un intellettuale di madre ebrea convertitosi al cristianesimo, è sostenuta anche da Alain De Benoist, fondatore della Nouvelle Droite e aperto sostenitore del neopaganesimo. Certamente, le ragioni sono diametralmente opposte, ma l’esito finale è lo stesso. Leggiamo infatti che «nel paganesimo, il mito fondatore, l’archetipo, si oppone naturalmente alla Legge. Mythos contro logos. Il sacro pagano si ricollega immediatamente alla realtà visibile, sensibile ed anche, soprattutto, la conduce verso l’ideale. Un albero, una collina, un corso d’acqua possono essere sacri; lo sono». 90 Fa davvero sobbalzare, vedere la Grecia associata al mythos e Israele al logos! Ma è proprio questa la tesi sostenuta dall’intellettuale francese. Egli ripropone l’idea della natura sacralizzata dal paganesimo e desacralizzata dall’ebraismo. 91

Questo era forse vero prima dell’affermazione della filosofia in Grecia. E, certamente, la mentalità razionale non si è affermata nelle polis senza difficoltà. Anassagora porta la filosofia ad Atene nel 462 a.C. e desacralizza la natura affermando che gli astri non sono dèi, ma oggetti composti da particelle: il Sole è una massa incandescente e la Luna un globo roccioso. Per questo viene considerato empio ed espulso da Atene. La stessa accusa verrà mossa da Meleto a Socrate, che sarà costretto a bere la cicuta. 92 Successivamente, però, a battaglia vinta, la natura – sacra o non sacra – poté essere vivisezionata, ridotta a logos, smontata e rimontata, come dimostra l’attività degli scienziati alessandrini. Ma per De Benoist l’ellenismo è ormai decadenza. E così finisce per riprendere pari pari le tesi di un esegeta biblico e talmudico come Emmanuel Lévinas, il quale afferma che «il giudaismo non ha sublimato gli idoli, esige la loro distruzione. Come la tecnica, ha demistificato l’universo». 93

Va riconosciuto a De Benoist di avere tratteggiato piuttosto bene i caratteri del paganesimo. Risulta nel complesso convincente quando scrive che essi si sostanziano in «una concezione eminentemente aristocratica della persona umana, un’etica fondata sull’onore (l'“onta” piuttosto che il “peccato”), un’attitudine eroica di fronte alle sfide dell’esistenza, l’esaltazione e la sacralizzazione del mondo, della bellezza, del corpo, della forza e della salute, il rifiuto degli “inframondi”, l’inseparabilità dell’estetica dalla morale, ecc. In quest’ottica, il valore più alto e senza dubbio, non una “giustizia” rivolta all’essenziale in termini di appiattimento egualitario, ma ciò che permette all’uomo di superare se stesso». 94 Volendo però riagganciarsi a certi movimenti romantici e irrazionalisti, in funzione anti-illuminista, finisce per capovolgere quelli che sono dati storici difficilmente contestabili. I movimenti romantici rivalutano il medioevo che, fino a prova contraria, è il punto d’ingresso della cultura giudaica in Europa, per il tramite del cristianesimo. Mentre invece, con l’illuminismo trionfa il gusto classico, pagano, greco-romano. Friedrich Nietzsche, che è più “illuminista” di quanto non si voglia ammettere 95 , afferma che nel rifiuto opposto da Voltaire a un prete che gli chiedeva di credere almeno in punto di morte alla divinità di Cristo, parlava «il gusto classico» di «questo spirito coraggiosissimo». Voltaire riteneva che «non c’è niente di divino in questo Ebreo di Nazareth» perché «il gusto classico e il gusto cristiano pongono il concetto “divino” in modo fondamentalmente differente». 96

Ma perché ci preme tanto ristabilire questa verità storica, visto che non ci muovono né gli interessi politici di De Benoist, né quelli religiosi di Scheler o Levinas? Per rispondere dobbiamo tornare all’attualità.

Abbiamo assistito recentemente, in Italia e in altri paesi di tradizione cristiana, ad una offensiva in grande stile della Chiesa cattolica e di alcune chiese evangeliche per bloccare o limitare determinate pratiche biotecnologiche, in nome della bioetica (cristiana). Le tecniche di procreazione assistita hanno aperto le porte alla possibilità di rimozione di malattie ereditarie, grazie alla selezione degli embrioni, o addirittura al miglioramento degli organismi umani grazie alla selezione o alla disattivazione di determinati geni. Poiché è fuori discussione il fatto che la comunità debba farsi carico del sostegno affettivo e medico ai bambini che comunque nascono con disabilità o malattie incurabili che ne pregiudicano l’esistenza, o causano loro grandi sofferenze 97 , ci si chiede se non sia piuttosto immorale vietare o evitare l’uso di queste biotecnologie a monte, rinunciando a prevenire il problema. Ci si chiede se il deliberato non uso delle nuove tecnologie non equivalga al volere quelle sofferenze.

Invece di confrontarsi razionalmente su questi gravi problemi bioetici e biopolitici, i portavoce laici o religiosi del Vaticano e delle Chiese evangeliche hanno lanciato l’allarme del «pericolo di una deriva eugenetica». È un ritornello ripetuto così di frequente che c’è solo l’imbarazzo della scelta, per quanto riguarda le citazioni. Particolarmente attivo su questo fronte è Monsignor Rino Fisichella, che presiede la Pontificia Accademia per la Vita. Ha organizzato diversi convegni internazionali sull’argomento, uno nel 2009 intitolato “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell’eugenetica”. 98

È nel contesto dello stesso dibattito che Giuliano Ferrara definisce un «capriccio» il desiderio di avere figli sani o procreare in caso di sterilità, mentre Adriano Pessina sull’Osservatore Romano arriva a dire che chi desidera figli sani e forti è un “frustrato”, ai limiti della psicopatia. 99 Ora, non credo che serva un sondaggio per dimostrare che la maggioranza degli italiani, e forse degli esseri umani, preferisce di gran lunga un figlio sano ad un figlio malato. Incluso chi scrive. Dunque, siamo tutti peccatori, tutti capricciosi, tutti psicopatici?

In questa gara a denunciare i crimini dell’eugenetica, i sostenitori della bioetica cristiana non si fanno scrupolo di distinguere tra un’eugenetica autoritaria basata sulla sterilizzazione forzata di portatori di handicap, disoccupati, marginali, alcolizzati, gruppi etnici minoritari, ecc. (ovvero l’eugenetica praticata nel Terzo Reich e ancora più sistematicamente nei democratici Stati Uniti d’America) e un’eugenetica liberale che lascia intatta la libertà di scelta dei genitori e piuttosto li aiuta a procreare quando non possono. Lo stesso possiamo dire di aborto ed eutanasia: un conto è un’imposizione di Stato e un conto ben diverso è lasciare la scelta ai pazienti o ai famigliari. Ma un ministro della Repubblica Italiana, Carlo Giovanardi, non ha esitato a definire “nazisti” gli olandesi, per la loro legislazione più liberale e permissiva in queste materie. 100

Si distingue per onestà intellettuale Joseph Ratzinger, più dei guelfi che gli tengono lo strascico. Infatti, Benedetto XVI almeno sa distinguere: «Certo non vengono riproposte ideologie eugenetiche e razziali che in passato hanno umiliato l’uomo e provocato sofferenze immani, ma si insinua una nuova mentalità che tende a giustificare una diversa considerazione della vita e della dignità personale fondata sul proprio desiderio e sul diritto individuale». 101

Ma davvero è una “nuova mentalità” quella che si afferma? Certo, il diritto di utilizzare le biotecnologie è un corollario della prospettiva illuminista e liberale, che restituisce un ruolo decisivo alla volontà individuale, alla dimensione corporea dell’esistenza, alla felicità terrena come fine dell’uomo. Tuttavia, bisogna proprio sottolineare la parola “restituisce”, perché questi valori – come abbiamo visto – sono già presenti nel paganesimo antico.

Chi si ostina ad accusare scienziati, medici, pazienti e cittadini che producono o utilizzano biotecnologie di seguire un mero capriccio, di lanciare una sfida a Dio, di essere psicopatici, di preferire il denaro ai valori, di avere tendenze sadiche, o di essere cripto-nazisti, deve comprendere che sta in realtà combattendo contro qualcosa di molto più grande. Volere figli sani e auspicare per loro una collocazione di prestigio nella società è un desiderio antico, che ha radici greco-romane, e si spiega con la “fedeltà alla terra” dei pagani, di cui parlava anche Nietzsche. Se questi sono i valori dominanti, significa che il paganesimo è rinato, il paganesimo sta vincendo la sua battaglia millenaria.

Dunque, ad essere “devianti” rispetto allo spirito del mondo non sono gli scienziati che studiano il DNA o i cittadini che sempre più frequentemente si rivolgono ai medici per allungare la propria vita o migliorarne le condizioni, ma gli integralisti cristiani che fanno riferimento a valori sempre più marginali. 102 I cristiani, in un mondo liberale, hanno sicuramente il diritto di vivere in accordo ai propri valori e al proprio orizzonte sapienziale. Ma nel momento in cui cercano di imporre i propri valori agli altri con la forza della legge (ovunque trovino oligarchie compiacenti), non fanno altro che incrinare e indebolire quelle strutture liberali che sole possono garantire la sopravvivenza della loro etica, della loro idea di “buona vita”, nella sfera privata.

Si potrebbe pensare che l’ignoranza o la deliberata falsificazione della storia siano tutto sommato un problema minore. Ma è proprio sul terreno della storiografia che si decide la vittoria o la sconfitta di un’idea. La chiave per cambiare la realtà ce l’ha svelata George Orwell: «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato».

Questo è in parte vero anche nelle democrazie, non solo nei totalitarismi. Se una tesi storiografica non si impone, significa che chi la propone non controlla il presente, non ha potere. Se una tesi storiografica si impone, significa che i sostenitori di questa idea controllano il presente, hanno potere. Ma, soprattutto, è proprio l’egemonia in campo storiografico la chiave per plasmare il futuro. In altre parole, la rivoluzione biopolitica proseguirà il suo cammino o si arresterà, anche in funzione della coscienza storica dei soggetti coinvolti nel processo. Sta emergendo qualcosa a cui non siamo ancora riusciti a dare un nome. Ci stiamo provando. Lo abbiamo chiamato “postumanismo”, “sovrumanismo”, “transumanesimo”, “nuovo umanesimo”. La storiografia ci rivela che potremmo anche chiamarlo “neopaganesimo” – un paganesimo secolarizzato che ha trasformato in valori gli dèi della mitologia greco-romana.

I neopagani, allargando il concetto di Erofilo, possono oggi affermare orgogliosamente che «le tecnologie sono le mani degli Dèi».

Note

  • 1 Ci sono eccezioni, naturalmente. Alla conferenza Człowiek ulepszony (L’uomo migliorato), organizzata dall’Istituto di Zoologia dell’Università Jagiellonica di Cracovia, il 18 marzo 2010 – nella quale, detto per inciso, non si sono sentite o quasi voci contrarie al miglioramento biotecnologico della specie – il bioetico Jan Hartman ha costruito il proprio intervento proprio sulle idee di Nietzsche, sdoganando anche i termini "eugenetica" e "superuomo". Nel suo intervento, significativamente intitolato “Tabu nadczłowieka” (“Il tabu del superuomo”), si è detto favorevole anche all'intervento tecnologico sulle qualità spirituali – e non solo anatomiche – dell'uomo del futuro. Il Prof. Hartman non può certo essere accusato di neonazismo, dato che è un intellettuale ebreo, membro della società B’nai B’rith, e pronipote del rabbino Izaak Kramstyk, primo ad insegnare il Talmud in lingua polacca nel XIX secolo. Crediamo, inoltre, che ricorrere alla reductio ad Hitlerum per squalificare gli interlocutori sia chiaro sintomo della mancanza di argomenti più solidi.
  • 2 È stato il socialista e futurologo Julian Huxley ad introdurre il concetto di "gruppo etnico" in luogo di quello di "razza", dividendo l’umanità in tre etnie principali (caucasoide, negroide e mongoloide). Curiosamente, Huxley ha introdotto anche il termine "transumanesimo" ed ha ricoperto importanti ruoli nel movimento eugenetico mondiale. È stato anche il primo direttore dell'Unesco, il cosiddetto "cervello" dell’ONU. Cfr. "Scienza e superuomo nel pensiero di Friedrich Nietzsche", Letteratura Tradizione, n. 41, 2007.
  • 3 Cfr. S. Vaj, Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, Milano 2005.
  • 4 Cfr. L. Pellicani, Le radici pagane dell’Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
  • 5 Tertulliano, Contro gli eretici, p. 39
  • 6 Celso, Contro i cristiani, Rizzoli, Milano 1989. P. 119.
  • 7 L. Pellicani, Le radici pagane dell’Europa, op. cit.: pp. 115-116.
  • 8 Ivi, p. 119.
  • 9 Si pensi all’idea del perdono, come strumento per spezzare la catena infinita di faide tra famiglie o etnie. Oppure all’idea dell'auto-critica, per prevenirle, ossia l’invito a vedere la trave nel proprio occhio, prima ancora di criticare o stigmatizzare la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Sulla stessa linea, si pone la critica a chi scaglia la prima pietra, credendosi senza peccato. Queste proposte etiche – per quanto poco seguite – delineano indubbiamente un patrimonio di saggezza morale che, ancora oggi, i più riconoscono come utile e importante.
  • 10 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999: p. 263.
  • 11 Come fonte abbiamo utilizzato un "classico degli studi classici": R. Graves, I miti greci. Dèi ed eroi in Omero, Longanesi & C, Milano 1963.
  • 12 Ivi., p. 128.
  • 13 Qui mi limito alla ricostruzione di Graves. C’è chi sostiene addirittura che Gesù Cristo non sia mai esistito, essendo un mero plagio delle divinità solari pagane. Anche Bacco sarebbe nato da una vergine (Selene) il 25 dicembre e sarebbe morto crocefisso o legato a un palo (e d’altronde anche nei più antichi Vangeli in lingua greca di parlerebbe di palo – stauros – e non di croce; e non vi sarebbero immagini di Gesù crocefisso fino all’anno 1000 circa). Simili coincidenze si notano riguardo a Horus, Mithras, Sol Invictus, e molti altri dèi del Sole. Cfr. T. Freke e P. Gandy, The Jesus Mysteries, Thorson, Londra 1999; e T. C. Leedom e M. Murdy, Il libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere, Newton Comton Editori, Roma 2009. Naturalmente, si è ancora lontani da una verità storica ben stabilita su questi fatti e anche la teoria del plagio ha le sue anomalie e debolezze, sul piano delle fonti e delle interpretazioni. D’altro canto, la ricostruzione ufficiale che ci offre la tradizione cristiana è tutt’altro che solida e la fede gioca un ruolo notevole nella sua sopravvivenza. Di fronte all’incertezza, in questa ricerca, abbiamo deciso di tenere ferma l’ipotesi della reale esistenza storica di un predicatore ebreo di nome Gesù, anche se non escludiamo che alcuni dei caratteri e degli atti che gli sono stati attribuiti nei Vangeli derivino da divinità pagane.
  • 14 R. Graves, I miti greci, op. cit.: pp. 21-36.
  • 15 Ivi: p. 30.
  • 16 Ivi: p. 133.
  • 17 Cfr. U. Galimberti, Psiche e Techne, op. cit.: p. 261.
  • 18 K. Bird e M. J. Sherwin, Robert Oppenheimer il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, Garzanti, Milano 2007.
  • 19 T. Regge, Gli eredi di Prometeo: L’energia nel futuro, La Stampa, Torino 1993.
  • 20 Cfr. “Ai confini del sistema solare con un reattore atomico”, La Repubblica, 14.06.2003.
  • 21 J. S. Haldane, Daedalus or Science and the Future, A paper read to the Heretics, Cambridge 1923: http://cscs.umich.edu/~crshalizi/Daedalus.html
  • 22 R. Graves, I miti greci, op. cit.: p. 282.
  • 23 È noto che proprio grazie alla tecnologia del ferro, alle navi e ai carri da combattimento i popoli indoeuropei scendono dai Balcani e seminano il terrore in tutto il bacino del Mediterraneo. Si inquadra in questo processo anche l’invasione del Peloponneso da parte dei Dòri, a partire dal 1150 a.C.
  • 24 Nell’ambito della cultura giudaica, anche Gesù è figlio adottivo di un falegname, dunque di un “tecnico” del tempo, e insegna nel tempio all’età di dodici anni tra i dottori della Legge. Si concentra però sulla morale, non sulla conoscenza tecnico-scientifica.
  • 25 R. Merton, The Sociology of Science. Theoretical and Empirical Investigations, Chicago University Press, Chicago 1973: pp. 343-382.
  • 26 R. Graves, I miti greci, op. cit.: p. 84.
  • 27 Ivi: p. 87.
  • 28 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Minerva [Accesso: 09.10.2009]
  • 29 Ivi.
  • 30 M. A. Iannaccone, Minerva e la civetta, (la vera storia degli Illuminati, parte 1), 14.04.2007, www.lidenbrock.org Cfr. dello stesso autore Storia segreta. Adam Weishaupt e gli Illuminati, Sugarco Edizioni, Milano 2006.
  • 31 Ivi.
  • 32 Ivi.
  • 33 Ivi.
  • 34 U. Galimberti, L’alleanza delle religioni contro l’autonomia dell’uomo, dalla rubrica La casa di psiche, 6 aprile 2007: Online
  • 35 Cfr. M. Pescante e P. Mei, Le antiche Olimpiadi. Il grande sport nel mondo classico. Rizzoli, Milano 2003.
  • 36 E. Cantarella, “Quando gli eroi dell’Antica Grecia gareggiavano contro De Coubertin”, Corriere della sera, 12 agosto 2004.
  • 37 Cfr. U. Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Demetra, Colognola ai Colli (VR) 1999: p. 42.
  • 38 «“Noi veritieri” ecco il nome che si davano i nobili della Grecia antica»: F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, af. 260.
  • 39 K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, I, Platone totalitario, Armando, Roma 1973.
  • 40 Aristotele contesta a Platone l’idea che l’anima sia immortale, ingenerata, incorruttibile, incorporea, sempre attiva e semovente, ma poi afferma l’immortalità dell’intelletto (una parte dell’anima), senza aggiungere ulteriori dettagli. Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, op. cit.: p. 150.
  • 41 Matteo 5: 3-10.
  • 42 «Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti»: Matteo 13: 49-50.
  • 43 U. Galimberti, Psiche e techne, op. cit.: p. 270.
  • 44 «Che cos’è buono? – Tutto ciò che potenzia nell’uomo il sentimento della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa. Che cos’è cattivo? – Tutto ciò che deriva dalla debolezza. Che cos’e la felicità? – Il sentimento che la potenza cresce, - che una resistenza è superata. Non soddisfazione, ma più potenza; non pace, ma guerra; non virtù, ma bravura (virtù nello stile del Rinascimento, virtù [in italiano nel testo, nda], virtù senza morale). I deboli e i malriusciti devono soccombere: primo principio della società. E bisogna anche aiutarli a soccombere. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? – La compassione dell’azione per tutti i malriusciti e i deboli, - “il cristianesimo”…»: F. Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit.: pp. 164-165.
  • 45 A. De Benoist, Come si può essere pagani?, Basaia Editore, Roma 1984: 44. Cfr. anche Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977, dove si mette in luce che il martire cristiano «è all’estremo opposto dell’eroe pagano, personificato dagli eroi greci e germanici… per l’eroe pagano, il valore di un uomo è legato alle prodezze che gli permettono di raggiungere e mantenere la potenza».
  • 46 «Vi è dunque nella donna, come nell’uomo, un’unica e medesima natura che li rende capaci entrambi di operare per la difesa e il governo dello stato. (…) Bisognerà allora selezionare le donne dotate di tali qualità; esse apparterranno alla stessa classe degli uomini ugualmente dotati. (…) Nude allora si metteranno le donne dei nostri guardiani, e in luogo delle vesti sarà la virtù ad avvolgerle, e parteciperanno alla guerra e a ogni altra incombenza necessaria per la difesa e il governo dello stato. (…) Naturalmente troveremo il solito imbecille che ridacchia alla vista di donne nude esercitarsi in vista della perfezione. Di costui diremo… che non capisce niente. (…) e che non sa che… ciò che è utile è sempre bello, e ciò che e dannoso, brutto»: Platone, Repubblica o Sulla giustizia, Feltrinelli, Milano 1995: pp. 391-395.
  • 47 Ivi: pp. 399-401.
  • 48 Ivi: p. 285.
  • 49 Ivi: p. 287.
  • 50 Aristotele, Trattato dei governi, trad. di Bernardo Segni, cap. XV, Libro Quarto, Sonzogno, Milano 1905.
  • 51 Ivi: cap. XVI.
  • 52 Ivi.
  • 53 Ivi.
  • 54 Ivi: «E detto adunche siasi quando si debbe fare la congiunzione dei matrimonî. Quanto ai tempi dell’anno debbe ciò essere fatto nel verno, come usano di fare molti, e bene debbono ancora osservare i genitori le cose avvertite dai medici e dai naturali; perché li medici dicono a bastanza i tempi atti alla sanità dei corpi, e li naturali in quanto ai venti, lodano più li tramontani, che li mezzigiorni».
  • 55 Ivi.
  • 56 Ivi.
  • 57 Condorcet, Quadro storico dei progressi dello spirito umano, Rizzoli, Milano 1989.
  • 58 Fa eccezione Carlo Cattaneo che – seppur spesso catalogato tra i positivisti – non considera affatto il progresso una legge storica e mette spesso in luce le fasi di regresso di certe civiltà. Cfr. Psicologia delle menti associate, Editori Riuniti, Roma 2000.
  • 59 Cfr. L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano 2006 (1996).
  • 60 M. Scheler, Sociologia del sapere, Abete, Roma 1966: p. 79.
  • 61 A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007: p. 63.
  • 62 Si parla spesso di “fallimento tecnologico dell’antichità”, sulla scorta degli studi di E.J. Dijksterhuis (Cfr. Il meccanismo e l’immagine del mondo: dai presocratici a Newton, Feltrinelli, Milano 1980). Ubaldo Nicola lo riassume così: «Gli antichi possedevano a livello teorico una quantità di conoscenze non molto inferiore quella che nel Seicento sarà poi alla base della cosiddetta “rivoluzione scientifica”. Lo dimostrerebbe una delle macchine meravigliose di Erone, la eolopila, che presuppone la conoscenza del principio del vapore. Da queste conoscenze tuttavia i Greci non avrebbero però saputo trarre alcun profitto sul piano pratico» (Atlante illustrato di filosofia, op. cit.: p. 158). Lucio Russo contesta questa tesi e mostra che il rapporto tra scienza e tecnologia era stato ben compreso dai Greci e che numerosissime furono le applicazioni pratiche. In Etica della scienza pura (Sestante, Bergamo 2007), ho ripreso anch’io la tesi del “fallimento tecnologico”, cercando di mediare tra le due posizioni. È indubitabile quanto afferma Russo – e lo vedremo nel prosieguo di questo saggio – tuttavia è anche vero che non vi fu nell’Antichità alcuna rivoluzione industriale. Lo schiavismo resta dunque la chiave per comprendere il relativamente basso livello di diffusione delle sofisticate tecnologie disponibili. Le applicazioni erano limitate ai settori in cui la manodopera a basso costo offerta dal sistema schiavistico non era decisiva: tecnologie militari, grandi opere pubbliche, spettacoli, ecc.
  • 63 Ivi: pp. 66-77.
  • 64 Il più attivo nella produzione di tesi storiografiche assolutamente implausibili è Rodney Stark, che è riuscito a fare derivare dal monoteismo giudeo-cristiano, oltre alla scienza, anche la fine della schiavitù e l’economia di mercato. Si può riuscire nell’operazione solo glissando su fatti macroscopici come le giustificazioni dello schiavismo prodotte da San Paolo, i mille anni di povertà e servitù della gleba nell’Europa cristiana medioevale, e dulcis in fundo la riduzione in schiavitù di africani e nativi americani da parte dei cristianissimi colonizzatori europei nell’età moderna. Cfr. R. Stark, For the Glory of God: How Monotheism Led to Reformations, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery, 2003; e La Vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, Torino 2006.
  • 65 I. Lakatos e P. Feyerabend, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Cortina, Milano 1995: p. 46.
  • 66 L. Russo, La rivoluzione dimenticata, op. cit.: pp. 82-83.
  • 67 Ivi: p. 239.
  • 68 Ivi: p. 24.
  • 69 Aristotele, Physica, VII, 5, 250a.
  • 70 L. Russo, La rivoluzione dimenticata, op. cit.: pp. 43-44.
  • 71 «Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno». Ed egli rispose: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta”»: Matteo 12: 38-39.
  • 72 Il passo del Vangelo di Giovanni (20: 24-28) è piuttosto noto: «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mez-zo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tom-maso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”».
  • 73 Cfr. R. Campa, Etica della scienza pura, op. cit.: 83-106.
  • 74 Cfr. Matteo 15: 21-28: «Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio”. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allo-ra i discepoli gli si accostarono implorando: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”. Ma egli rispose: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”. Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: “Signore, aiutami!”. Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. “È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Allora Gesù le replicò: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita.»
  • 75 Si sospetta che per scoprire la differenza, Erofilo abbia compiuto esperimenti in vivo su condannati a morte, perché recidere i nervi di un cadavere non darebbe risposte decisive. Che fosse in uso questa macabra pratica è riferito da Celso nel De medicina: «Allora aprivano sui tavoli dei corpi di uomini ancora vivi – erano criminali tratti di prigione per decreto del re – e, mentre questi ancora respiravano, osservavano da vicino parti che fino ad allora la natura aveva occultato… E non è nemmeno crudele come molti asseriscono che nell’esecuzione dei criminali, e solo di alcuni di loro, noi cerchiamo rime-di per guarire gli innocenti delle generazioni future» (citato da M. Guillen, Le cinque equazioni che hanno cambiato il mondo, Longanesi, Milano 2009: p. 104).
  • 76 L. Russo, La rivoluzione dimenticata, op. cit.: p. 171.
  • 77 Ivi.
  • 78 Gli esempi sono numerosi: «In quel tempo gli fu portato un indemoniato, cieco e muto, ed egli lo guarì, sicché il muto parlava e vedeva» (Matteo 12: 22); «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va' a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva» (Gio-vanni 9: 1); «Giunsero a Betsàida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo. Allora preso il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: “Vedi qualcosa?”. Quegli, alzando gli occhi, disse: “Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano”. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa» (Marco 8: 22); «E giunsero a Gèrico. E mentre partiva da Gèrico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. (…) Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?". E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada» (Marco 10: 46); «In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi» (Luca 7: 21).
  • 79 Ivi: p. 175.
  • 80 Ivi.
  • 81 N. Summerton, Medicine and health care in Roman Britain, Princes Risborough, Buckinghamshire, UK : Shire Publications, 2007.
  • 82 «Dalla metà del Trecento un flusso di scritti greci provenienti da Costantinopoli si diresse in Italia, e da qui nel resto d’Europa, provocando quello che è detto il Rinascimento per antonomasia. Il flusso si intensificò nel primo Quattrocento. Duecentotrentotto furono, per esempio, i manoscritti portati da Giovanni Aurispa nel viaggio del 1423. Gli intellettuali rinascimentali non erano in grado di capire le teorie scientifiche ellenistiche, ma, come bambini intelligenti e curiosi che entrano per la prima volta in una biblioteca, erano attratti da singoli risultati e in particolare da quelli illustrati nei manoscritti con disegni, come le dissezioni anatomiche, la prospettiva, gli ingranaggi, le macchine pneumatiche, la fusione di grosse opere in bronzo, le macchine belliche, l’idraulica, gli automi, la ritrattistica “psicologica”, la costruzione di strumenti musicali»: L. Russo, La rivoluzione dimenticata, op. cit. pp. 387-388.
  • 83 Ivi: p. 395.
  • 84 Ivi: 143.
  • 85 Abbiamo tutti sentito almeno una volta un catechista cattolico denunciare la “barbarie” pagana dello schiavismo e dei ludi gladiatori, ma per avere servitori nelle case e combattenti nelle arene bisogna innanzitutto risparmiare loro la vita in guerra. Cosa che gli ebrei raramente facevano. Per documentarsi sulla ferocia del popolo israelita, è sufficiente leggere la Bibbia. Di stermini gratuiti di donne, bambini e innocenti, comandati dal Signore, c’è l’imbarazzo della scelta: «Il Signore ascoltò la voce di Israele e gli mise nelle mani i Cananei; Israele votò allo sterminio i Cananei e le loro città» (Numeri: 21); «Il Signore disse a Mosè: “Trattate i Madianiti da nemici e uccideteli», «Marciarono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè e uccisero tutti i maschi», «Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini conservatele in vita per voi» (Numeri 25-31); «Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani [la città], ne colpirai a fil di spada tutti i maschi, ma le donne, i bambini, il bestiame… li prenderai come tua preda. (…) Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei» (Deuteronomio 20); «Disse il Signore a Giosuè: “Vedi, io ti metto in mano Gerico e il suo re. (…) Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino i buoi, gli arieti e gli asini» (Giosuè, 6); «Quando Israele ebbe finito di uccidere tutti i combattenti di Ai nella campagna, nel deserto... gli Israeliti si riversarono in massa in Ai e la colpirono a fil di spada. Tutti i caduti in quel giorno, uomini e donne, furono dodicimila, tutti di Ai» (Giosuè, 8). E questi sono solo alcuni esempi. Aggiungiamo una riflessione. Se per i cristiani Dio è uno (Gesù si identifica con il Signore nella Trinità) e se la Bibbia è parola di Dio, segue logicamente che i massacri che percorrono tutto il racconto biblico sono stati ordinati o compiuti da Gesù stesso, prima della sua incarnazione. Per evitare questa spiacevole conclusione, i cristiani dovrebbero ammettere il politeismo (la presenza di almeno due dèi distinti, con opinioni diverse), oppure rigettare l’attendibilità dell’Antico Testamento. Ma è noto che ragione e fede non vanno propriamente d’accordo, Tertulliano docet.
  • 86 Giulio Cesare, nel De bello civili ci tiene a precisare che «aveva concepito la speranza di poter finire la campagna senza combattere e senza spargere il sangue dei suoi [...] Perché infine tentar la fortuna soprattutto se si considera che non è meno degno di un generale vincere col senno che con la spada? Era anche mosso dalla compassione per i suoi concittadini» (La guerra civile, Rizzoli, Milano, 2004). Mosè invece, su ordine del Signore, non esita a sterminare migliaia dei suoi stessi concittadini per il solo fatto che hanno cambiato religione (Esodo 32: 27-29). Oggi l’apostasia è un diritto garantito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
  • 87 L. Russo, La rivoluzione dimenticata, op. cit. pp. 158-159.
  • 88 Ivi: p. 29.
  • 89 «Una tesi a dir poco sorprendente», scrive ne Le radici pagane dell’Europa, op. cit.: p. 115. E in un altro saggio aggiunge: «Difficile condividere un simile punto di vista, una volta che si tenga presente che il primo disincanto del mondo – la nascita del logos nelle poleis della diaspora greca – si è verificato in un contesto culturale affatto estraneo alla tradizione giudaica, così come fu affatto estranea alla tradizione giudaica la prima rivoluzione scientifica: quella che prese corpo nella civiltà ellenistica»: L. Pellicani, “Scienza e natura”, in Idea di natura (a cura di E. Cadelo), Marsilio, Venezia 2008: p. 22.
  • 90 A. De Benoist, Come si può essere pagani?, op. cit.: p. 111.
  • 91 «Ora, il mondo, secondo la Bibbia, deve essere desacralizzato. La natura non deve più essere “animata”: Ivi: p. 120.
  • 92 Così Meleto accusa Socrate: «No, giudici, per Zeus, dato che dice che il sole è pietra e la luna terra!»: Platone, Apologia di Socrate: Online
  • 93 Ivi.
  • 94 Ivi: p. 29.
  • 95 Cfr. R. Campa, “Scienza e superuomo nel pensiero di Friedrich Nietzsche”, Letteratura Tradizione, n. 41, Pesaro 2007.
  • 96 F. Nietzsche, La volontà di potenza, Club del libro Fratelli Melita, La Spezia 1984: p. 54.
  • 97 Persino nei miti greci e romani, nonostante l’orientamento “eugenetico”, la regola è che i tanti bambini condannati all’esposizione vengano poi adottati da dèi, umani e animali. Quei miti insegnano dunque una pietas che va addirittura oltre l’umano. Cfr. R. Graves, I miti greci, op. cit.: passim.
  • 98 Cfr. Mimmo Muolo, “Eugenetica, attentato contro l’umanità”, Avvenire, 22.01.2009, Online
  • 99 «Spesso il desiderio del figlio perfetto è la copertura dette frustrazioni psicologiche e fisiche di chi è insoddisfatto della propria umanità e cerca un surrogato ai propri insuccessi»: A. Pessina, “Il miraggio della perfezione”, Osservatore Romano, 29 maggio 2008.
  • 100 Le parole testuali sono le seguenti: «La legislazione nazista e le idee di Hitler stanno riemergendo in Olanda attraverso l’eutanasia e il dibattito su come si possono uccidere i bambini affetti da patologie». Corriere della sera, 17.03.2006. http://archiviostorico.corriere.it http://archiviostorico.corriere.it
  • 101 Cfr. M. Muolo, “Eugenetica, attentato contro l’umanità”, op. cit.
  • 102 È lo stesso Benedetto XVI ad ammettere che «Nel contesto della società europea, i valori evangelici ancora una volta stanno diventando una contro-cultura, proprio come lo erano al tempo di San Paolo» (Cfr. G. Galeazzi, “Dopo cinque anni di pontificato Ratzinger deve riformare la Curia”, La Stampa, 19 aprile 2010). Il che non fa altro che confermare l’idea di Pellicani che «la “vera Europa” oggi è pagana, non già cristiana» (Le radici pagane dell’Europa, op. cit., p. 179).

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