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Divenire

Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e sul postumano

LA RIVISTA

Presentazione

Divenire è il titolo di una serie di volumi incentrati sull'interazione tra lo sviluppo vertiginoso della tecnica e l'evoluzione biologica dell'uomo e delle altre specie, ovvero votati allo studio dei rapporti tra la tecnosfera e la biosfera. Gli autori, provenienti da diverse aree disciplinari e orientamenti ideologici, sviluppano la propria analisi con occhio attento al probabile esito finale di queste mutazioni casuali o pianificate: il postumano. Sono dunque studi che sul piano temporale spaziano nel presente, nel passato e nel futuro, mentre sul piano della prospettiva disciplinare sono aperti a idee e metodi provenienti da diverse aree di ricerca, che vanno dalle scienze sociali alle scienze naturali, dalla filosofia all'ingegneria, dal diritto alla critica letteraria.

Ogni volume ha quattro sezioni. In Attualità compaiono studi attinenti a problematiche metatecniche del presente. Genealogia è dedicata a studi storici sui precursori delle attuali tendenze transumanistiche, futuristiche, prometeiche — dunque al passato della metatecnica. In Futurologia trovano spazio esplorazioni ipotetiche del futuro, da parte di futurologi e scrittori di fantascienza. Libreria è dedicata ad analisi critiche di libri su tecnoscienza, postumano, transumanesimo.
I volumi pubblicati finora (ora tutti leggibili in questo sito):

  1. D1. Bioetica e tecnica
  2. D2. Transumanismo e società
  3. D3. Speciale futurismo
  4. D4. Il superamento dell'umanismo
  5. D5. Intelligenza artificiale e robotica

Divenire 5 (2012) è interamente dedicato all'Intelligenza Artificiale (IA).

Intelligenze artificiose (Stefano Vaj) sostiene che il tema dell'automa (esecuzione di programmi antropomorfi o zoomorfi su piattaforma diversa da un cervello biologico) resta tuttora circondato da un vasto alone di misticismo: quando non viene negata in linea di principio la fattibilità dell'IA, ne viene esagerata escatologicamente la portata. (english version)

La maschera dell'intelligenza artificiale (Salvatore Rampone) indaga gli equivoci concettuali sottostanti alla domanda se una macchina abbia intelligenza o possa pensare e spiega perché l'IA debba nascondersi sotto la maschera del Soft computing.

Il problema filosofico dell'IA forte e le prospettive future (Domenico Dodaro) Analizza il tema della coscienza  semantica mettendo in luce i suoi  aspetti corporei e considera la possibilità di implementarli in sistemi artificiali. Sono valutati sia i limiti tecnologici e computazionali della riproduzione artificiale della coscienza (intesa come una facoltà del vivente) sia i programmi di ricerca più fecondi al fine di arginarli.

Cervelli artificiali? (Emanuele Ratti) espone il progetto di ricerca forse più ardito nel campo dell'IA che emula funzioni e organi biologici: il cervello artificiale di Hugo de Garis, introducendo concetti chiave di questo settore disciplinare come rete neurale e algoritmo genetico.

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Presentazione

Automi e lavoratori. Per una sociologia dell'intelligenza artificiale (Riccardo Campa) sposta l'attenzione sull'impatto economico e sociale della computerizzazione e della robotizzazione. Quali effetti sull'occupazione e quali correttivi per massimizzare i benefici e minimizzare gli effetti indesiderati? Proiettando il tema nel futuro, vengono analizzati i possibili scenari, in dipendenza di diverse politiche (o non-politiche) dello sviluppo tecnologico.

Il nostro cervello cinese (Danilo Campanella) riporta l'origine dei calcolatori moderni all'antica Cina. Utilizzando matematica, teologia e misticismo, i cinesi elaborarono i primi rudimenti del linguaggio binario, poi rubato dagli occidentali.

Alan Turing: uno spirito transumanista (Domenico Dodaro) Sono esposte le ragioni per cui Turing può essere definito un pensatore transumanista. Il matematico inglese è in genere descritto solo come padre dell'IA tradizionalmente intesa. L'analisi dell'autore dimostra invece la sua vicinanza ai temi delle "nuove scienze cognitive" e della computazione complessa (o ipercomputazione).

Passato, presente e futuro dell'Intelligenza Artificiale (Bruno Lenzi). L'articolo mostra, su un arco temporale molto ampio, fallimenti, riuscite, pericoli e scoperte delle scienze cognitive, sottolineando che l'IA non è questione solo tecnico-scientifica, racchiude germogli e frutti maturi in ogni area del sapere, e potrebbe essere molto diversa dall'intelligenza umana.

Post-embodied AI (Ben Goertzel). L'autore, uno dei principali sostenitori dell'AI forte, analizza la questione filosofica dell'embodiment: una intelligenza artificiale forte (capace di risolvere problemi in domini nuovi, di comunicare spontaneamente, di elaborare strategie nuove) deve necessariamente avere un body?

Nanotecnologia: dalla materia alle macchine pensanti (Ugo Spezza) spiega questo ramo della scienza applicata che progetta nanomacchine e nanomateriali in molteplici settori di ricerca: biologia molecolare, chimica, meccanica, elettronica ed informatica. L'articolo presenta le applicazioni già esistenti e le fantastiche potenzialità progettuali, dai nanobot per il settore medico ai neuroni artificiali.

Verso l'Intelligenza artificiale generale (Gabriele Rossi) introduce la Matematica dei Modelli di Riferimento degli iLabs ed esplora i potenziali vantaggi di questa prospettiva alla luce di alcune questioni teoriche di fondo che pervadono tutta la storia della disciplina.

Ich bin ein Singularitarian (Giuseppe Vatinno) è una recensione di La singolarità è vicina di Ray Kurzweil.

NUMERI DELLA RIVISTA

Divenire 1. Bioetica e tecnica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 2. Transumanismo e società

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 3. Speciale futurismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 4. Il superamento dell'umanismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 5. Intelligenza artificiale e robotica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

RICERCHE

1

2

3

4

CHI SIAMO

Comitato scientifico

Riccardo Campa
Docente di metodologia delle scienze sociali all'Università Jagiellonica di Cracovia
Patrizia Cioffi
Docente di neurochirurgia all'Università di Firenze
Amara Graps
Ricercatrice di astronomia all'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario
James Hughes
Docente di sociologia medica al Trinity College del Connecticut
Giuseppe Lucchini
Docente di statistica medica all'Università di Brescia
Alberto Masala
Ricercatore di filosofia all'Università La Sorbonne (Paris IV)
Giulio Prisco
Vice-presidente della World Transhumanist Association
Salvatore Rampone
Docente di Sistemi di elaborazione delle informazioni all'Università degli studi del Sannio
Stefan Lorenz Sorgner
Docente di filosofia all'Università di Erfurt
Stefano Sutti
Docente di diritto delle nuove tecnologie all'Università di Padova
Natasha Vita-More
Fondatrice e direttrice del Transhumanist Arts & Culture H+ Labs

Ait

L'AIT (Associazione Italiana Transumanisti) è un'organizzazione senza scopo di lucro con la missione di promuovere, in ambito culturale, sociale e politico, le tecnologie di potenziamento dell'essere umano.

Fondata nel 2004, è stata formalizzata mediante atto pubblico nel 2006 ed ha avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento.

Sede legale AIT: via Montenapoleone 8, 20121 Milano

Sito internet AIT: www.transumanisti.it (>)

Pubblica questa rivista: Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano

Curatore: Riccardo Campa

Segretaria di redazione: Nicoletta Barbaglia

Art director: Emmanuele Pilia (>)

Gruppo di Divenire su Facebook: (>)

Contatti

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Liberalismo e progresso biomedico: una visione positiva

Autore: Angelo Maria Petroni (traduzione di: Stefano Vaj)

da: Divenire 2, Attualità () | pdf | stampa

Un nuovo spartiacque ideologico

Sin dall’origine stessa di questa associazione 1 , è apparso chiaro che vi erano due questioni che non sarebbero mai state risolte tramite una discussione razionale ed amichevole: Dio e l’oro. Infatti, ci sono membri religiosi così come atei od agnostici – i primi che considerano il liberalismo come fondamentalmente connesso alla religione (in particolare cristiana) e i secondi come una dottrina puramente laica; e c’erano membri che consideravano lo standard aureo come l'indispensabile fondamento di ogni sensata economia di mercato, mentre altri lo consideravano un relitto di epoche passate. Mentre la questione dello standard aureo è tramontata abbastanza rapidamente, la questione di Dio – o, più esattamente, della religione e del liberalismo – era destinata a restare ben viva all’interno della nostra associazione.

Credo vi siano buone ragioni per assumere che le questioni bioetiche e biotecnologiche andranno progressivamente a giocare un ruolo simile tra i nostri membri, e, più in generale, tra gli intellettuali liberali. In effetti, i problemi bioetici e biotecnologici sembrano richiamare ad una profonda riconsiderazione di alcuni dei basilari concetti morali, politici e persino economici che sono tradizionalmente associati con la visione liberale dell’uomo e della società.

Ciò non dovrebbe sorprendere. Davvero, la cosa potrebbe essere vista come un caso particolare di un processo più generale: in particolare, quello per cui le conseguenze della tecnoscienza – siano esse attuali o destinate ad incidere solo in prospettiva – sono talmente nuove e pervasive per le generazioni presenti e future da chiamare ad un profondo ripensamento delle categorie politiche classiche.

C’è probabilmente un elemento di esagerazione nella tesi che la scelta tra favorire od opporsi ad una (quasi) illimitata applicazione delle nuove tecnologie biomediche – specialmente genetiche e riproduttive – verrà presto a rappresentare il fondamentale spartiacque politico nelle nostre società, mettendo in ombra la classica contrapposizione destra/sinistra o progressismo/conservatorismo. Comunque, il semplice fatto che le questioni biomediche sono rapidamente venute a giocare un ruolo importante in ogni programma o progetto politico in società democratiche non può essere negato; né può essere negato che esse risultano trasversali rispetto allo spettro ideologico tradizionale.

Questo saggio tenta di dimostrare che il liberalismo dovrebbe schierarsi fermamente dalla parte del progresso biomedico. Le ragioni di tale posizione non giacciono in alcuna visione bioetica specifica o nel merito, ma nascono dalla considerazione di quello che comporta una visione davvero liberale con riguardo alla libertà umana e ad un libero ordinamento sociale.

Libertà e natura umana

Quali sono le questioni poste dal progresso biomedico? Ce ne sono molte, ovviamente. Alcune riguardano aspetti economici, quali i costi crescenti della medicina più avanzata, o il finanziamento delle cure mediche ed infermieristiche per una popolazione sempre più vecchia e longeva. Alcune riguardano aspetti sociali e politici, perché un numero crescente di anziani influenzerà le relazioni familiari, e influenzerà ancora più profondamente le decisioni concernenti l’allocazione delle risorse pubbliche. Alcune riguardano aspetti morali, dacché esigono decisioni giuridiche e legislative in materie come le decisioni mediche concernenti il termine della vita umana, l’eutanasia o il supporto vitale artificiale.

In ogni modo, questi aspetti – benché assolutamente importanti – non sono il nocciolo della questione di cui intendiamo trattare. Dal momento che stiamo considerando che posizione il liberalismo debba prendere di fronte al progresso biomedico, ritengo che si debba innanzitutto confrontarsi con la più fondamentale sfida che esso p-ne, ovvero la possibilità che conoscenze e tecnologie genetiche avanzate possano rendere l’uomo capace di cambiare la propria struttura biologica, o, come spesso si dice, di cambiare la propria natura.

Deve il liberalismo considerare come benvenuto il progresso biomedico? O non dovrebbe piuttosto supportare una visione "bioconservatrice" – come quella sostenuta, da prospettive diverse, da eminenti accademici come Leon Kass, Francis Fukuyama o Edmund Pellegrino – nella credenza che l’idea stessa di libertà individuale e di un libero ordinamento sociale tramonterebbero se la natura umana venisse modificata? 2

Cominciamo dalla domanda generale se il liberalismo dipenda da una specifica visione della natura umana. La mia opinione è che la risposta sia negativa.

È ben noto che il liberalismo – in quanto approccio alla libertà individuale così come alla libertà sociale, politica ed economica – non rappresenta un corpus unitario di opinioni. Di fatto, il concetto di liberalismo include varie opinioni e tradizioni che sono distinte sia da un punto di vista teoretico che storico. Ciò che chiamiamo liberalismo è dato dal sovrapporsi di tali visioni e tradizioni, cosa ben riflessa nelle differenze tra le varie correnti della storiografia liberale.

La maggior parte delle visioni e tradizioni liberali hanno le loro particolari assunzioni quanto alla natura dell’uomo. Ciò è vero, per esempio, della visione di Locke, di quella di Hume, di quella di Kant, così come delle visioni post-hegeliane (come quella di H. T. Green e di Benedetto Croce). È anche vero della visione utilitaristica di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill, o della visione "evolutiva" di Herbert Spencer. La conclusione immediata, perciò, dovrebbe essere che, se il liberalismo non ha una visione specifica della natura umana, non vi è allora ragione di assumere che l’idea stessa di libertà individuale e di libero ordinamento sociale debba perdere significato o rilevanza quando e se la natura umana dovesse essere modificata.

Tale conclusione può apparire troppo "intellettualistica", e probabilmente lo è. Alcune ulteriori considerazioni più specificamente pertinenti al nostro oggetto sono perciò opportune.

La libertà individuale o un libero ordinamento sociale si basano sulla nostra natura biologica, genetica? Dal mio punto di vista, la miglior riposta a tale domanda può essere data facendo riferimento al fondamentale lavoro di Friedrich Hayek sui rapporti tra l’evoluzione biologica, l’evoluzione culturale, e la libertà. Secondo Hayek, le regole basate sulla libertà che rendono possibile la Grande Società – il libero ordinamento sociale esteso a milioni di individui – sono essenzialmente fragili e instabili. La ragione è che tali regole entrano in conflitto con istinti più antichi – il retaggio di stadi passati dell’evoluzione umana – che la civiltà ha contenuto e represso, ma non eliminato. Mentre l’esistenza di regole morali nella Grande Società dipende dalla loro continua imposizione, le regole della moralità tribale sono profondamente radicate nella nostra natura biologica. Hayek suggerisce che è "più che probabile" che molti dei sentimenti morali che l’uomo ha acquisito durante le centinaia di migliaia di anni prima che i primi elementi della civiltà apparissero – destinati alla fine a produrre la Grande Società – «non siano stati meramente trasmessi culturalmente tramite insegnamento o imitazione, ma siano divenuti innati o geneticamente determinati» 3 . Essi includono l’idea di una gerarchia comune di fini e la deliberata condivisione di mezzi secondo una comune visione dei meriti individuali. E dal momento che questi sentimenti geneticamente determinati concernono la totalità della popolazione umana, vi sono poche chance che a lungo termine il processo di evoluzione per le regole di condotta della Grande Società non venga sovvertito. Ogni défaillaince nel meccanismo di trasmissione (ritenzione), o ogni fallimento nella produzione di nuove regole (mutazione) adattate a circostanze in via di trasformazione, può risultare in un ritorno a quelle regole che possono essere considerate innate.

Se la visione di Hayek è corretta, allora la libertà individuale e un libero ordinamento sociale non dipendono causalmente dalla nostra presente natura biologica. Essi sono il risultato di un’evoluzione culturale – distinta in quanto tale dall’evoluzione biologica – che è stata permessa, ma non determinata, dalla nostra struttura genetica. Di conseguenza, non vi è ragione per assumere che la libertà individuale e un libero ordinamento sociale debbano necessariamente svanire se la nostra struttura genetica dovesse cambiare.

Qui sorge una domanda interessante. La possibilità di modificare il genoma umano è la più grande conquista – o, piuttosto, la più grande promessa – delle biotecnologie. La struttura genetica dell’uomo non cambierà per "variazione cieca e ritenzione selettiva" – come nella evoluzione naturale. Al contrario, le modificazioni saranno il risultato della conoscenza scientifica e di un comportamento volontario. Il risultato è che, anche se le trasformazioni saranno trasmesse geneticamente e non tramite insegnamento o imitazione, saremmo ancora di fronte ad una evoluzione culturale anziché naturale, dato che l’intero processo sarebbe teleologico e non causale. La possibilità che il genoma umano possa essere modificato se-condo la volontà di esseri umani è criticata dai bioconservatori da vari punti di vista.

Viene detto che ciò produrrebbe una trasformazione della natura stessa dell’uomo, forgiando un percorso verso un futuro “postumano”. Questo futuro postumano sarebbe in quanto tale il peggiore dei mondi possibili. Da un lato, inclinerebbe verso la realizzazione del "Brave New World" di Aldous Huxley – più precisamente di un'utopia collettivista egualitaria. Dall’altro, sarebbe foriero di una società estremamente inegualitaria, dove alcuni individui geneticamente potenziati dominerebbe sugli altri.

Il fatto stesso che i bioconservatori facciano derivare due conclusioni diametralmente opposte riguardo al futuro della società umana dall'idea di trasformare il genoma umano è di per se stesso prova che i loro argomenti hanno scarso fondamento.

Per ciò che concerne il primo scenario, è ovvio che i liberali non possono che rigettare ogni idea di un Brave New World. Ma la ragione non è che il Brave New World verrebbe reso possibile da potenti droghe capaci di influenzare il funzionamento del cervello umano, o da strumenti tecnologici che permettano una riproduzione umana impersonale. La ragione è che in tale contesto gli strumenti biomedici non verrebbero decisi ed usati dalle persone secondo le loro libere determinazioni, ma da un sistema totalitario nello sforzo di controllare la vita delle stesse.

Per quanto riguarda invece il secondo scenario, molti ritengono che sia poco probabile che il potenziamento genetico dell’essere umano – sia esso somatico o a livello di linea germinale – conduca ad una società fortemente inegualitaria. Le tecnologie genetiche sono destinate a divenire ampiamente disponibili e a buon mercato, come la maggior parte delle altre tecnologie. Non vi è ragione di assumere che lo Stato debba mantenere il controllo delle tecnologie genetiche al fine di assicurare che tutti i cittadini ricevano un uguale trattamento – come predicato da autori quali Ronald Dworkin 4 – di quanto non vi sia per assumere che che lo Stato debba mantenere il controllo delle tecnologie mediche attuali per assicurare che tutti i cittadini possano parimenti ottenere cure mediche.

Non vi è accordo tra gli scienziati quanto alle possibilità ed alla portata delle possibili modificazioni del genoma umano. Mentre alcuni ritengono che nel prossimo futuro le tecnologie biomediche permetteranno di modificare i nostri geni in modo da progettare la nostra prole in accordo con i nostri desideri, altri sostengono che la complessità del genoma umano renderà impossibile raggiungere tale obbiettivo. A loro avviso, l’ingegneria genetica potrà essere in grado di rimuovere certi geni "cattivi" al fine di avere bambini senza alcune specifiche malattie di origine genetica, ma l’idea di selezione una manciata di geni al fine di avere "bambini su misura" – con doti intellettuali o fisiche eccezionali – sarebbe scientificamente infondata.

Non è ovviamente lo scopo di questo articolo rendere conto del dibattito scientifico in corso su tali questioni. Né dovrebbero i liberali necessariamente favorire uno scenario rispetto all’altro. Giova ricordare che il liberalismo è sempre stato particolarmente critico rispetto ad ogni pensiero utopico, che si tratti di utopie positive o negative, precisamente giacché ritiene che il futuro debba essere informato al libero arbitrio e alle decisioni di ciascuna generazione – e non da alcuna forza "storica" super-individuale ed irresistibile, o da una catena di eventi deterministica 5 . Dal punto di vista liberale, ciò che è in gioco è l’esercizio della libertà umana nel dominio di una realtà quasi completamente nuova.

Libertà e ordine

Il liberalismo pone il primato della libertà individuale al di sopra dell’ordine sociale, politico ed economico. Il liberalismo assume che l’ordine debba essere generato dalla (libera) volontà ed azioni degli individui, e non il contrario.

Il liberalismo attribuisce grande rilevanza alle norme sociali e culturali ed alle tradizioni, ma lo fa da un punto di vista duplice. Da un lato, presuppone che le norme e le tradizioni debbano essere il risultato di azioni individuali volontarie per lunghi periodi di tempo. In secondo luogo, ritiene che norme e tradizioni debbano essere strumentali alla protezione dei diritti individuali.

Vi è una netta differenza tra liberali e conservatori. Alcuni punti meritano di essere sottolineati.

  • Per i conservatori, il mantenimento di un ordine sociale stabile è il fondamentale criterio per giudicare qualsiasi norma morale così come qualsiasi umana azione. Lo stesso può essere detto per il ruolo e il valore della libertà. Perciò, per i conservatori, l’etica dovrebbe essenzialmente includere doveri positivi degli individui verso la loro comunità e la società. I liberali, d’altro canto, concepiscono l’etica come principalmente, se non esclusivamente, composta da norme negative; da regole, cioè, che proibiscono condotte che potrebbero violare i diritti degli altri, piuttosto che regole che prescrivano un comportamento specifico.
  • I conservatori ritengono che un compromesso possa essere legittimamente raggiunto tra la libertà ed altri valori sociali (come l’ordine), mentre per i liberali i cosiddetti valori sociali (ordine incluso) dovrebbero essere la conseguenza della libertà individuale. Non vi è perciò ragione di considerare alcun tipo di compromesso da difendere attraverso misure politiche coercitive.
  • I liberali distinguono accuratamente l’idea che gli individui che vivono nella stessa società debbano necessariamente condividere alcune norme etiche basilari, e l’idea che essi debbano avere fini comuni. Mentre i conservatori danno la maggior importanza alla seconda idea, i liberali no.
  • I liberali pongono una chiara distinzione tra la legge e la morale. Ciò implica il principio che le idee morali concernenti private regole di condotta, e che non interferiscono direttamente con la sfera privata degli altri non possano mai costituire una giustificazione per misure coercitive. I conservatori generalmente non condividono questa posizione, dato che pensano che le comunità – siano esse civili o religiose – debbano influenzare e dirigere le scelte individuali.
  • I liberali ritengono che le interazioni tra individui in cui ciascuno persegue liberamente il proprio interesse conducono alla fine al benessere di tutti. Questo non accade solo se il diritto di proprietà non è chiaramente definito, o se non è pienamente rispettato. Fenomeni come i giochi sociali a somma negativa sono la conseguenza di un quadro normativo o di una protezione inadeguati in materia di diritto di proprietà. Persino quando appaiono, nel mondo reale, come inevitabili senza una regolazione centralmente assicurata (prendiamo ad esempio l’inquinamento atmosferico), a causa di alti costi transazionali, essi appaiono l’eccezione e non la regola dei fenomeni sociali in un contesto di libertà. I conservatori, invece, ritengono che raggiungere e mantenere il benessere generale richiede forti restrizioni alla libertà d’azione individuale.

La visione liberale non è solo una teoria morale. È anche una teoria epistemologica; è supportata dalla distinzione – elaborata, tra gli altri, da Hayek e da Michael Polanyi 6 – tra due tipi di ordinamento.

Il primo tipo sono gli ordini costruiti. Questi sono il risultato di un atto deliberato di un uomo o di un ristretto numero di persone. La loro esistenza è dovuta al fatto che tutti gli elementi dell’ordine obbediscono a comandi che specificano cosa ciascuno di loro debba fare in ogni specifica circostanza. Gli ordini costruiti sono sviluppati per realizzare uno scopo specifico, che è comune a tutti i membri dell’ordine stesso. La complessità di tali ordini non eccede ciò che può essere padroneggiato da una singola persona o da un numero limitato di individui. Talora chiamiamo questo tipo di ordine una "organizzazione". L’efficienza di un tale ordine riposa sul fatto che i principi fondanti siano chiari, internamente coerenti, e posti in essere in modo appropriato. Un esercito, una società commerciale sono esempi di ordini costruiti. Ma i meccanismi stessi dello Stato sono esempi di un ordine costruito. Probabilmente le economie pianificate dei paesi comunisti hanno rappresentato il più ambizioso tentativo di creare ordini costruiti omnicomprensivi.

Il secondo tipo di ordine sono gli ordini spontanei. Essi non sono progettati da alcuna singola mente o gruppo di menti, ma emergono dall’incontro di intenzioni ed azioni di una pluralità di individui, ciascuno teso a raggiungere i propri scopi. La loro esistenza riposa sul fatto che i loro elementi seguono norme che evitano interferenze con gli scopi ed il comportamento di altre persone. Queste norme sono perciò semplicemente la proibizione di una condotta ingiusta. In questo senso, essi sono chiamati "ordini di libertà". Gli individui in ordini spontanei sono "liberi" nel senso della "libertà negativa" di Isaiah Berlin, o della "libertà liberale" di Raymond Aron. Gli ordini spontanei o autogenerati possono essere molto complessi, dato che non dipendono dalla conoscenza posseduta da un numero limitato di individui – per esempio i legislatori, o il governo. Essi sono non-gerarchici. Dal momento che non servono alcuna finalità predefinita, essi possono evolvere in relazione a condizioni interne ed esterne in trasformazione, senza dissolversi interamente. Il mercato e il linguaggio sono due esempi maggiori di ordini spontanei. Malgrado il fatto di essere il risultato di innumerevoli azioni razionali e finalizzate, la loro configurazione generale in ogni momento non è decisa da nessun singolo individuo o insieme delimitato di individui.

I concetti di ordine costruito e di ordine spontaneo sono ovviamente Idealtypus. Nondimeno, hanno un forte potere esplicativo dei fenomeni e delle trasformazioni sociali, politici ed economici. Quando ci si trova di fronte ad una qualsiasi proposta sociale, politica o economica, da un punto di vista liberale ci si dovrebbe sempre porre la domanda – che è al tempo stesso descrittiva e normativa – : questa proposta comporta il rendere l’ordine globale della società più costruito, o più spontaneo?

Ora, credo che il bioconservatorismo possa essere adeguatamente valutato da un punto di vista liberale tenendo in mente proprio questi concetti. Di fatto, il bioconservatorismo si oppone al progresso biomedico in campi come le modificazioni del genoma umano e le tecnologie della riproduzione umana, come la clonazione, il potenziamento cerebrale, o l’estensione della longevità, sulla base del fatto che ciò distruggerebbe il presente ordine sociale. Ciò in particolare resterebbe vero persino se l’applicazione delle nuove opportunità tecnologiche fosse il risultato di libere decisioni individuali della gente, riguardo a se stessa e alla propria prole.

Per i liberali, l’approccio bioconservatore è sbagliato, perché inverte il corretto legame causale tra libertà ed ordine; per essi, l' "ordine giusto" è lo stato di cose che consegue dalle libere azioni degli individui nel rispetto per i diritti dei loro simili. Per dirla in altri termini, per i liberali ogni visione della giustizia basata su uno "stato finale del sistema" è fondamentalmente viziata.

L’opposizione bioconservatrice al progresso biomedico invariabilmente invoca severe proibizioni legali di ogni sorta, rispetto alle decisioni degli individui riguardo se stessi e la propria prole. Molto spesso, viene sollevata la necessità di trattati internazionali di natura proibizionista e repressiva, così da evitare che le pratiche biomediche che sono proibite in questo o quel paese possano essere portate avanti in altri paesi – in ipotesi meno moralmente consapevoli – ivi compreso per persone provenienti dai paesi più "morali". Ora, non vi è dubbio che questo approccio corrisponde ad un forte restringimento della sfera individuale di non interferenza da parte dei pubblici poteri.

Su questo punto, uno non può non interrogarsi su alcuni aspetti della politica dell’amministrazione di George W. Bush in materia di biomedicina. In effetti, il governo americano ha posto in essere uno sforzo concertato, benché fallimentare, di far passare una risoluzione delle Nazioni Unite che proibisse la clonazione umana e la ricerca sugli embrioni. Attribuire la responsabilità di una decisione tanto importante, che si estenderebbe alla giurisdizione statunitense, all’ONU, era ovviamente in contrasto con la tradizione dei conservatori americani sulla salvaguardia della sovranità nazionale. Al tempo stesso, l’amministrazione Bush ha tentato di far passare una legislazione federale in materia di biomedicina al fine di sostituire e superare le leggi "permissive" di vari stati dell’unione con una regolamentazione più stretta. Anche questo era in contrasto con la tradizione delle amministrazioni repubblicane degli ultimi decenni, che hanno agito per invertire il processo di centralizzazione, con un ritrasferimento di potere ai singoli stati. Se aggiungiamo a questo il fatto che l’amministrazione Bush ha tentato di far passare persino una regolamentazione federale sull’uso dei fondi privati nella ricerca biomedica, diventa sempre più chiaro che il progresso biomedico sta creando nuovi spartiacque ideologici e politici.

Giova ricordare che all’origine stessa del moderno concetto di libertà e di un libero ordine sociale c’era l’idea che ogni individuo ha dei diritti sul suo proprio corpo. Tale idea si è progressivamente sviluppata per includere la libertà di scelta quanto alle cure mediche così come la libertà di rifiutare cure mediche indesiderate – entrambe espressione della "libertà negativa" di cui si diceva. Sostenendo che agli individui dovrebbe essere impedito di ricevere prestazioni mediche che gli stessi desiderano (e che si possono permettere) in campo riproduttivo, così come nel campo del potenziamento fisiologico, o della longevità, i bioconservatori ritornano di fatto ad una visione premoderna della relazione tra individui e pubblici poteri. Ci si chiede anzi perché i bioconservatori non siano tanto coerenti da chiedere la reintroduzione del crimine di (tentato) suicidio, quale esisteva nei codici di molti paesi in passato.

Nel pensiero bioconservatore, vi è una profonda diffidenza nei confronti delle scelte umane in materia di vita e di morte. Invero, i bioconservatori assumono che, a fronte delle opportunità consentite dal progresso biomedico, l’uomo sceglierà sulla base di desideri ed istinti incontrollati, non sulla base delle morali o della ragione. Pertanto, costrizioni esterne generalizzate sono da auspicare – a beneficio degli esseri umani e della loro prole, così come per la salvaguardia dell’ordine sociale. Uno potrebbe chiedersi se questa visione antropologica negativa – che considera la libertà una illusione o un pericolo, o entrambi – derivi essenzialmente da una particolare interpretazione del pensiero religioso, o sia la conseguenza, consapevole o meno, di un’adesione dei bioconservatori ad un idea freudiana della mente, della famiglia e della società.

La conclusione che se ne può trarre è che la visione bioconservatrice invoca un passo decisivo nel rendere il nostro ordine sociale più costruito e meno spontaneo.

Cosa rende il bioconservatorismo tanto attraente?

Il bioconservatorismo esercita una forte attrazione su un largo numero di intellettuali ovunque nel mondo. Alcuni di essi sono conservatori anche politicamente, altri – come Jürgen Habermas 7 – sono esponenti di primo piano della sinistra.

Perché il bioconservatorismo è così attraente? A mio avviso, il suo più forte elemento di attrazione è costituito dal fatto che il bioconservatorismo sembra rappresentare la sola effettiva protezione della vita di tutti gli esseri umani contro i rischi che, asseritamente, deriverebbero dalle nuove scoperte in campo biologico e dalle loro applicazioni tecnologiche. A fronte della probabilità, foss’anche piccola, che da nuove scoperte ed applicazioni possa risultare una minaccia alla vita umana biologica e sociale, l’atteggiamento razionale sarebbe proibire la ricerca empirica così come le sue applicazioni.

Questo approccio è spesso chiamato il "principio di precauzione", ed è divenuto uno dei mantra del pensiero ecologista radicale, così come di soggetti ed enti politici nazionali e sovrannazionali, come l'Unione europea. Da esso è permeato altresì il pensiero bioconservatore.

Il caso dell’Unione Europea colpisce in modo particolare. Nel 1997 il Trattato di Amsterdam statuisce che «la Commissione, nelle sue proposte [...] concernenti la salute, la sicurezza, la protezione ambientale e la protezione dei consumatori, si baserà su un elevato livello di protezione, prendendo in conto, in particolare, ogni nuovo sviluppo fondato su fatti scientifici. Nell’ambito dei rispettivi poteri, il Parlamento europeo e il Consiglio agiranno ugualmente per realizzare questo obbiettivo» (art. 95). In ogni concetto relazionale, un "alto livello di protezione" significa poco se un "basso" livello di protezione non è prima definito. Comunque, la connotazione del concetto è chiara: le istituzioni europee sono impegnate ad adottare politiche che privilegino la riduzione dei rischi. Ciò è confermato dall’art. 174: «La politica ambientale della Comunità mirerà ad un alto livello di protezione, prendendo in conto la diversità di situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa sarà basata sul principio di precauzione». Eccolo.

Il principio di precauzione, in ogni caso, non trae origine dalla creatività dei burocrati europei. Uno dei suoi primi esempi significativi si trova nella Dichiarazione Ministeriale della Seconda Conferenza Internazionale sulla Protezione del Mare del Nord (1987): «Al fine di proteggere il Mare del Nord da effetti potenzialmente dannosi delle sostanze più pericolose, un approccio precauzionale è necessario, che può richiedere azioni tese a controllare le immissioni di tali sostanze anche prima che un legame causale sia stato stabilito da chiare prove scientifiche».

Una nuova Dichiarazione Ministeriale è stata emanata alla Terza Conferenza Internazionale sulla Protezione del Mare del Nord (1990). La stessa rimpolpa la precedente dichiarazione, statuendo che «i partecipanti [...] continueranno ad applicare il principio di precauzione, ovvero quello di adottare azioni tese ad evitare l'impatto potenzialmente dannoso di sostanze che siano persistenti, tossiche e suscettibili di bioaccumulazione anche qualora non vi sia prova scientifica che dimostri un legame causale tra immissioni ed effetti».

Il principio di precauzione è anche elencato come quindicesimo principio della Dichiarazione di Rio del 1992 tra i principi riguardanti i diritti e gli obblighi di ordine generale delle autorità nazionali. «Al fine di proteggere l’ambiente, l’approccio precauzionale dovrebbe essere ampiamente applicato dagli Stati secondo le rispettive capacità. Ove vi siano minacce di serio o irreversibile danno, la mancanza di una piena certezza scientifica non dovrà essere usata come ragione per posticipare misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale».

Chiaramente, vi è una netta differenza tra le due formulazioni. Nel primo caso, il principio corrisponde all’adozione di una "strategia a rischio zero". Una data classe di azioni dovrebbe essere proibita quando l’evidenza scientifica suggerisce che sono dannose, anche se una certezza scientifica non può essere raggiunta. La seconda formulazione è compatibile con la teoria standard del comportamento razionale. In presenza di possibili perdite catastrofiche, un grado relativamente basso di prova del rischio è sufficiente per astenersi dal porre in essere una certa condotta. Ma la prima formulazione è incompatibile con la teoria standard del comportamento razionale. Se la prova di un nesso causale tra una data azione e una data conseguenza è zero, allora non esistono basi per astenersi dalla condotta suddetta. Non vi è differenza tra questa versione del principio di precauzione e la semplice superstizione.

La questione del principio di precauzione è diventata così importante nelle politiche della UE che la Commissione, nel febbraio 2000, ha sentito il bisogno di riassumere le sue linee guida. La conclusione è illuminante: «Quando i dati disponibili sono inadeguati o inconcludenti, un approccio cauto e prudente alla protezione ambientale, alla salute o alla sicurezza potrebbe essere l’optare per l’ipotesi peggiore. Quando tali ipotesi si accumulano, ciò porterà ad una esagerazione del rischio ma assicurerà in certa misura che esso non venga sottovalutato» 8 .

Le conseguenze di questa conclusione sono vaste. Come la teoria standard del comportamento razionale insegna, in qualsiasi linea di condotta, agire sulla base delle peggiori possibili conseguenze è completamente irrazionale. Su tali basi, uno non dovrebbe mai prendere un aereo o attraversare la strada. Ancora più rilevante per la questione delle cure mediche, uno non dovrebbe mai intraprendere test clinici di un nuovo farmaco, o anche solo sottoporsi ad un qualsiasi intervento chirurgico.

I sostenitori del principio di precauzione sistematicamente ignorano il fatto che ogni azione umana comporta cosiddetti "costi di opportunità", cioè i costi che le persone devono sopportare quale conseguenza del fatto che un nuovo prodotto o una nuova tecnologia non è stata sviluppata, perché si è deciso di non intraprendere una linea di condotta alternativa. La decisione di non fare nulla, o di fare poco, incorre in costi di opportunità. La decisione di ritardare il ritmo della trasformazione scientifica, tecnologica ed economica (dovuta al desiderio di evitare qualsiasi rischio) implica il costo di rinunciare a tutti i benefici che avrebbero potuto derivarne: procedure migliori, prodotti migliori, migliori tecnologie. Incluso in questi costi è il fatto che gli esseri umani avranno meno strumenti con cui fronteggiare future trasformazioni del loro ambiente. Avranno meno chance di combattere nuove minacce, come nuovi virus. A lungo termine, la sistematica applicazione del principio di precauzione conduce a un mondo meno sicuro e più imprevedibile.

Il principio di precauzione presenta inoltre un aspetto antropologico che non dovrebbe essere sottovalutato. Di fatto, corrisponde ad una visione della società che vuole spogliare gli individui della loro libertà di scegliere. È parte di questa libertà il fatto che agli individui dovrebbe essere permesso di fare le loro proprie scelte con riguardo al livello di rischio – e costi corrispondenti – che essi sono pronti ad accettare in decisioni riguardo al cibo, alle cure mediche, allo stile di vita personale. Politiche basate sul principio di precauzione riducono fortemente questa libertà. Gli individui non sono visti come esseri liberi e responsabili, ma come minori bisognosi di essere guidati da burocrati e politicanti.

In conseguenza degli argomenti precedenti, ogni approccio agli affari umani che dovesse essere basato sul principio di precauzione è tanto erroneo da un punto di vista razionale quanto è inaccettabile da un punto di vista liberale. Il bioconservatorismo non fa eccezione. Di fronte alle tremende trasformazioni che il progresso biomedico può indurre, l’adozione della soluzione "a rischio zero" – o a "rischio quasi zero" – fa appello ad alcuni dei sentimenti umani più profondi. Ma non si accorda con i principi né della ragione umana né della libertà umana. Per prendere a prestito uno splendido concetto di Hayek: «Dal momento che il valore della libertà umana riposa sulle opportunità che fornisce per azioni impreviste e imprevedibili, raramente sappiamo cosa perdiamo a causa di una particolare restrizione della libertà». 9

Vale forse la pena di rimarcare che la visione bioconservatice si fonda su un assunto inespresso che non può resistere ad uno scrutinio razionale. L’assunto è che se nulla fosse fatto dall’uomo stesso l’umanità continuerebbe la sua storia indefinitamente. Un tetro futuro postumano sarebbe soltanto il risultato di una irrazionale decisione umana di mettere fine ad un felice futuro umano altrimenti senza fine.

Da ogni sensato punto di vista evolutivo le cose appaiono stare alquanto diversamente. Di fatto, non vi è ragione di assumere che l’ambiente non debba mai produrre, di per se stesso, pericoli mortali per la specie umana. L’unico modo in cui gli uomini possono evitare lo sviluppo di nuove forme di vita che possano mettere in pericolo la sopravvivenza stessa della specie è promuovere la conoscenza scientifica e le sue applicazioni tecnologiche. E ciò può ben includere la modifica del genoma umano così da potenziare la nostra resistenza di fronte a condizioni ambientali in trasformazione – ivi compresi i mutamenti climatici, nel caso. I bioconservatori, non meno dell’ecologismo fondamentalista, appaiono più vicini a Linneo che a Darwin nella loro rappresentazione dell’uomo e del suo ambiente biologico.

Alcune questioni controverse

Come già detto, lo scopo di questo articolo non è di argomentare in favore di una particolare visione etica o bioetica di merito. D’altronde, vi sono alcuni punti specifici che vale forse la pena di esaminare ai fini della tesi che il liberalismo dovrebbe schierarsi fermamente dalla parte del progresso biomedico.

Un primo aspetto riguarda la questione delle trasformazioni della natura biologica dell’uomo: siano esse funzionali o genetiche, o dovute all’avanzare della scienza e della tecnologia, davvero conducono necessariamente ad una sovversione dell’ordine sociale delle norme morali esistenti? Il potenziamento genetico, la clonazione riproduttiva, l’estensione indefinita della longevità: queste cose rappresenterebbero non solo una sovversione dell’ordine sociale delle nostre società liberaldemocratiche, ma anche la fine delle regole morali come le conosciamo. Valori basilari come libertà ed eguaglianza verrebbero a perdere il loro contenuto; e svanirebbero progressivamente. Una legislazione proibizionista e repressiva diverrebbero necessarie al fine di preservare l’esistenza stessa di norme morali e valori morali – incluso il valore della libertà. In tal modo, saremmo di fronte ad un esempio particolarmente drammatico e radicale del paradosso della libertà: più precisamente, del fatto che al fine di proteggere la libertà, la libertà stessa avrebbe bisogno di essere limitata dalla coercizione da parte dei pubblici poteri.

Il vizio fondamentale di questa visione è che non prende pienamente in conto il fatto che le norme morali e i valori prevalenti in ciascun momento dato sono il risultato di un processo di evoluzione biologica e – soprattutto – culturale. Le norme morali e i valori evolveranno comunque, principalmente quale risultato dell’adattamento dell’uomo a nuove condizioni create dall’uomo stesso. Per coloro che hanno cara la libertà, la vera alternativa non è di fermare l’evoluzione al fine di preservare la libertà, ma di assicurarsi che l’evoluzione sia guidata dalle scelte individuali e non dalla coercizione.

I bioconservatori assumono che i diritti individuali, come si sono sviluppati nella tradizione politica occidentale, sono inestricabilmente connessi all’idea di eguaglianza genetica di tutte le persone, o, piuttosto, al fatto che ogni persona partecipa ad una "lotteria genetica", come dice Fukuyama. Pertanto, viene sostenuto che i diritti sono inseparabili dalla casualità statistica della natura e dall’ignoranza degli esseri umani riguardo la loro natura, sia come specie che come individui.

Questo argomento è logicamente falso. È quasi un esempio da manuale di "fallacia naturalistica", ovvero di quel tipo di ragionamento viziato sulla cui base viene sostenuto che certi dogmi morali prescrittivi possono saltar fuori da una descrizione dello stato delle cose. L'argomento è falso anche storicamente. In realtà, la nozione di individuo è storicamente connessa all’idea che gli umani sono capaci di capire la loro propria natura e quella dell’ambiente naturale intorno ad essi. Né tale argomento trova supporto nella storia delle tradizioni costituzionali occidentali. Che «All men are created equal», o che «les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droit» non ha nulla a che vedere con una qualsiasi "lotteria genetica" o visione biologica; al contrario, ha tutto a che vedere con l’idea cristiana di un’anima individuale – e beninteso immortale!

Infine, tale argomento è uno straordinario esempio di riduzionismo materialista: suggerisce in effetti che i diritti individuali scomparirebbero una volta che la struttura genetica della specie e di ogni individuo divenisse nota alla scienza. In breve, pretende che l’esistenza di diritti dipenda precisamente dalla conformazione genetica. Da un punto di vista di materialismo riduzionista, ogni nozione di diritti individuali e di libertà semplicemente scompare. Inoltre, questa idea è errata anche da un punto di vista scientifico: la complessità del genoma umano, le relazioni reciproche tra i geni, e i fenomeni epigenetici, sono tali da rendere implausibile qualsiasi serio tentativo di capire la struttura genetica dell’uomo tanto bene da essere in grado di descrivere il fenotipo di un individuo.

I bioconservatori pure assumono che i valori umani e l’umana dignità siano inseparabilmente connessi alla finitezza esistenziale degli esseri umani, o, per metterla più prosaicamente, alle limitazioni biologiche dell’uomo. I limiti delle facoltà mentali umane, insieme con la estensione finita della vita umana, sono così visti come valori da preservare attraverso divieti giuridici applicabili all’avanzamento biomedico e alla volontà stessa degli individui.

Che la certezza della morte sia il pilastro fondamentale della vita umana dell’uomo è un argomento che è indubbiamente sostenibile da un punto di vista religioso, o da quello di uno qualsiasi dei molti filosofi esistenzialisti venuti alla ribalta nel ventesimo secolo. Ma l’idea che i valori umani, inclusa la libertà individuale, germogli dalla certezza della morte (o addirittura dal fatto che la longevità umana non dovrebbe superare pochi decenni) e dalle costrizioni biologiche è un argomento che non ha né fondamento razionale né prove empiriche che lo supportino.

Uno potrebbe chiedersi perché mai individui fisicamente potenziati – con capacità mentali rinforzate, più longevi, e in migliori condizioni di salute – dovrebbero avere la libertà meno cara di quanto possiamo averla noi. Invero, l’evidenza storica suggerirebbe il contrario. Una maggiore longevità, meno malattie, e un miglior controllo delle proprie capacità riproduttive hanno storicamente proceduto mano nella mano con una più forte preferenza per il valore della libertà. Ciò non dovrebbe sorprendere. I limiti biologici degli esseri umani rendono la sopravvivenza – non la libertà o altri tipici valori culturali – la forza trainante delle loro azioni. Solo quando tali limiti sono indeboliti, la libertà viene a giocare un ruolo più rilevante nelle priorità individuali.

Un secondo punto concerne la questione della cosiddetta manipolazione della vita umana che è coinvolta nel progresso biomedico. La ricerca sugli embrioni umani è probabilmente il caso più importante e controverso, dato che è considerata la tecnica chiave oggi disponibile per l’avanzamento della conoscenza e della tecnologia biologica. Molti pensatori credono che la ricerca sugli embrioni umani sia moralmente ingiustificata dato che rappresenta una violazione della dignità della vita umana. I futuri progressi della medicina che derivino da questo tipo di ricerca non giustificherebbero tale comportamento, dato che ogni vita umana avrebbe un valore infinito, e non dovrebbe essere sacrificata a vantaggio di altra vita umana. Come ci si può aspettare, le chiese cristiane, in particolare quella cattolica, sono tra i più accaniti sostenitori di questa visione, mentre molte religioni asiatiche, così come alcune varianti della religione musulmana o di quella ebraica, hanno approcci completamente diversi.

La dottrina liberale è più vaga su questo tipo di questione. Di fatto, dalle idee centrali del liberalismo – secondo cui ogni individuo ha diritti inviolabili, incluso il diritto alla vita – non consegue alcuna prescrizione riguardo al fatto se gli embrioni debbano essere considerati individui o no. Ciò che è chiaro da un punto di vista liberale è che, se essi sono considerati individui, allora la ricerca sugli embrioni andrebbe condotta con le stesse limitazioni applicabili alla ricerca medica o farmacologica sugli uomini. Invero, tali limitazioni dovrebbero essere ancora più gravi, dato che gli embrioni ovviamente non possono esprimere un consenso informato. Alla stessa stregua, la fecondazione in vitro dovrebbe essere severamente ristretta, o addirittura proibita. L’accettazione della validità di argomenti utilitaristici in senso filosofico qui potrebbe condurre ad una attenuazione di tali limitazioni, ma certamente non alla loro eliminazione. La libertà dei ricercatori e dei futuri genitori dovrebbe essere legittimamente limitata per rispetto dei diritti di altri individui.

Sospetto che la questione dello status morale ed ontologico da ri-conoscere agli embrioni umani è una delle questioni su cui i membri della nostra associazione non si accorderanno mai. Sarebbe impossibile qui dar conto in modo adeguato del sofisticato dibattito che è stato portato avanti su tali questioni 10 . Basti qui notare che mentre i bioconservatori considerano i divieti e le limitazioni alla ricerca sugli embrioni e sulle tecnologie riproduttive cruciali per la difesa della dignità della vita umana, essi non sembrano dare sempre la stessa rilevanza al fatto che nei nostri paesi l’aborto è permesso, di diritto o almeno di fatto, a titolo di semplice scelta individuale. Dal loro punto di vista, ci si dovrebbe chiedere perché distruggere embrioni ad uno stadio iniziale di sviluppo al fine di sviluppare nuove terapie contro le malattie più gravi, o distruggere (alcuni) embrioni al fine di avere bambini attraverso la fecondazione in vitro, dovrebbe essere considerato più negativamente che permettere ed eseguire aborti. La paura del progresso biomedico appare una spiegazione, ma certo non una giustificazione.

Un terzo punto concerne le cosiddette questioni di fine-vita. A rigore, tali aspetti non sono necessariamente connessi con la questione del progresso biomedico, dal momento che possono essere rintracciati già agli albori della medicina, quando ovviamente nulla come trapianti di organi, manipolazione degli embrioni o modifica-zioni tecnologiche del genoma umano erano possibili. Comunque, il progresso biomedico ha dato loro una rilevanza senza precedenti, dal momento che nuovi farmaci e tecnologie mediche rendono possibile il prolungamento della vita umana anche in condizioni estremamente difficili.

La teoria liberale consente qui una varietà di posizioni: non vi è una risposta diretta che possa essere fatta derivare dai principi liberali a domande quali se, e quando, sospendere le cure mediche ad un paziente incosciente. In ogni caso, tale fatto non dovrebbe essere interpretato come un riconoscimento del fatto che i principi liberali non avrebbero rilevanza con riguardo a tali problemi. In verità, la complessità delle situazioni che sorgono dall’avanzamento della scienza medica non dovrebbero nascondere il fatto che i principi liberali esigono – nel caso di una cessazione della vita gestita medicalmente non meno che in ogni altro – il primato della volontà individuale (e diritto conseguente di prendere tutte le decisioni riguardanti il proprio corpo) sopra ogni altro principio dominante in una data società, sia esso religioso o laico. Ci sono dubbi e disaccordi su come questa debba essere espressa e come ne debba essere garantita l’osservanza, ma non che essa debba prevalere.

Molti pensano che il suicidio assistito non debba essere consentito, perché rappresenterebbe una violazione del diritto inalienabile alla vita del paziente. Quest’argomento può essere valido da certi punti di vista etici, ma è poco sensato da un punto di vista liberale. Per i liberali, l’idea stessa di diritti "inalienabili" non ha altro significato che dichiarare che ogni individuo dovrebbe essere in grado di esprimere la sua volontà senza coercizione. Se non vi è coercizione, allora ammettere che vi è ragione per proibire il suicidio assistito è equivalente ad affermare che il gruppo, o la società, devono moralmente prevalere sull’individuo.

Le tradizioni morali e legali sono importanti, certo. La maggior parte di esse pone stretti limiti al comportamento dei medici, dato che prevengono prassi che sarebbero equivalenti al "suicidio assistito". In molti paesi tali limiti sono stati estremamente attenuati, tanto che il suicidio assistito, in alcune circostanze, è legalmente ammesso. Non sono difficili da comprendere le preoccupazioni di coloro che hanno paura che legalizzare il suicidio assistito – o l’eutanasia, se si preferisce – spalancherebbe le porte a pratiche mediche che, alla fine, avrebbero poco a che vedere con la volontà di un paziente, e molto più con questioni economiche. Considerando il livello altamente socializzato quasi ovunque nel mondo della medicina, vi è ragione di temere che decisioni sul fatto di far cessare la vita verrebbero prese sulla basi di regolamentazioni burocratiche, e che la vera questione sarebbe il rispetto effettivo della volontà di persone che vogliono ottenere il massimo dalle cure mediche, non il rispetto della volontà di persone che vogliono un suicidio assistito.

L’ordine legale della libertà

In questioni di vita o di morte, la definizione dei diritti di proprietà è particolarmente difficile e complessa. Inoltre, l’avanzamento della biomedicina rimette costantemente in discussione i vecchi ordinamenti giuridici, dato che consente nuovi interventi sul corpo umano.

Dal punto di vista liberale, il solo scopo di ogni ordinamento, così come di ogni regolamentazione, è quello di assicurare che i diritti di proprietà legittimamente spettanti ad un individuo siano riconosciuti e protetti contro ogni violazione. Va al di là dello scopo della legge e delle norme rendere la società conforme a qualche progetto, o favorire ideali distributivi o redistributivi.

Vi è una differenza chiaramente individuabile tra liberali e conservatori – e tra liberali e socialisti. Questa differenza non concerne soltanto i fini, ma anche i mezzi: in altri termini, cioè, come un ordinamento giuridico debba essere concepito. Ciò non significa, beninteso, che i pensatori liberali condividano tutti la stessa visione del diritto. Invero, le idee liberali sono state elaborate in accordo con teorie giuridiche molto diverse, dal giusnaturalismo al positivismo giuridico. Nei decenni più recenti, un’attenzione considerevole è stata prestata alla questione di quale ordinamento sia maggiormente adatto alla visione liberale dell’uomo, della società e dell’economia. Una delle posizioni più rilevanti insiste sul significato e sulle differenze tra diritto e legislazione, sostenendo che la visione liberale è meglio servita dal primo concetto. Dal momento che penso che questa posizione sia altamente rilevante al fine del tema di questo articolo, vorrei sottolineare alcune delle idee più importanti.

Un corpo di leggi è composto da norme che sono il risultato di una lunga serie di decisioni giudiziali, e di opinioni di giuristi. Di conseguenza, il diritto non è il prodotto di una singola volontà. Non è il prodotto di una invenzione, ma la scoperta di ciò che è considerato giusto o ingiusto, in ogni data epoca e società, dalla maior et sanior pars del popolo. Le norme giuridiche sono il risultato di un processo di evoluzione convergente, "da precedente a precedente", che forma le rationes decidendi dei giudici.

Di regola, le norme giuridiche non prescrivono uno specifico comportamento agli individui. Esse piuttosto proibiscono i comportamenti che potrebbero danneggiare altri, cioè che potrebbero violare i legittimi diritti di altre persone. "Non rubare" non prescrive nessun comportamento specifico, nella vita quotidiana o nel comportamento economico. Soltanto proibisce un’azione che rappresenta una violazione delle proprietà legittimamente spettanti ad altri. Per tale ragione, come è stato sottolineato da Hayek, le norme giuridiche sono norme astratte: non indicano nessuno specifico scopo da raggiungere. La loro funzione è quella di massimizzare la chance, per ciascun individuo, di raggiungere i propri scopi senza ostacolare gli altri nel raggiungimento dei propri.

Dal momento che il diritto è essenzialmente un processo di scoperta, la norma giuridica incorporerà normalmente le regole di comportamento che sono effettivamente seguite dagli individui nelle loro interazioni. Come è stato ben spiegato da David Hume – e, un paio di secoli più tardi, dalla teoria dei giochi, naturalmente – queste regole emergono come risultato di ripetute interazioni in circostanze differenti. Tra molte alternative sperimentate, tali regole sono adottate perché servono al meglio le finalità di ciascun individuo.

Le norme giuridiche che risultano dal processo legislativo, d’altro canto, sono il prodotto di una volontà specifica. Questa può essere la volontà di un sovrano assoluto o di un parlamento. Lo scopo della legislazione non è quello di trovare ciò che è generalmente considerato come giusto o ingiusto dalla maior et sanior pars ma far prevalere una volontà specifica: ad esempio, la volontà di una maggioranza parlamentare. Di conseguenza, la legislazione è un comando che è dato agli individui, una prescrizione comportamentale. Non massimizza le chance di tutti, bensì la sua funzione è di permettere ad alcuni individui di raggiungere i loro scopi anche a spese delle chance altrui.

Come ci si può aspettare, nel corso della storia, diritto e legislazione sono sempre esistiti simultaneamente; le persone al potere hanno sempre tentato di piegare il processo legislativo in loro favore. In grado minore, diritto e legislazione sono complementari l’uno all’altro. Di fatto, il diritto ha sempre avuto bisogno – benché in modi e gradi diversi – di un ordine politico sufficientemente affidabile come di una cornice utile al suo funzionamento corretto. Inoltre, talvolta, il processo di generazione delle norme giuridiche non ha avuto successo nel produrre risultati convergenti, rendendo così necessario un intervento "centralizzato".

Il ventesimo secolo ha però subito una sostanziale innovazione: l’equilibrio tra diritto e legislazione si è sbilanciato in favore della seconda, specialmente nei paesi di civil law. Come è stato mostrato da studiosi come Hayek e Bruno Leoni 11 , il risultato di questo processo è stato molto dannoso per la libertà individuale, per il funzionamento della democrazia liberale, e per l’efficienza economica.

Come Karl Popper ci ha insegnato, l’essenza stessa della democrazia è la possibilità di controllare il potere – ivi compreso il potere delle maggioranze. Il diritto ha sempre rappresentato una formidabile barriera contro la possibilità di qualsiasi singolo potere di imporre la sua volontà. "Governo legale" è sempre stato sinonimo di governo limitato o controllato. Ora che la legalità è un prodotto del governo stesso, il risultato paradossale è che la libertà individuale è messa in pericolo non perché gli individui non sono soggetti alla legge, ma perché lo sono. Il principio della "rule of law" ha perso molto del suo contenuto dal momento in cui si è accettato che nessuna norma giuridica è esente dalla volontà del potere politico. Alla fin fine, i limiti costituzionali si sono rivelati un sostituto molto im-perfetto del diritto, come modi di limitare il potere sovrano.

È facile capire che il diritto è esso stesso un tipo di ordine spontaneo, mentre la legislazione è un tipo di ordine costruito. L’ordine spontaneo può emergere solo se le regole prevalenti sono in larga parte il prodotto del diritto e non della legislazione. Di converso, nessun ordine spontaneo può sopravvivere, se le regole "astratte" sono rimpiazzate da "comandi", che rappresentano la spina dorsale degli ordini costruiti.

La distinzione tra diritto e legislazione appare particolarmente ri-levante nelle questioni pertinenti al progresso biomedico. Il diritto consente una definizione di diritto di proprietà che meglio corrisponde all’ideale liberale di libertà individuale; secondo diritto, le decisioni sono prese su richiesta di una parte che reclama il riconoscimento e il rispetto di qualche specifico diritto di proprietà da una controparte, sia essa privata o pubblica. Questo significa che il diritto non dà necessariamente luogo ad una proibizione generalizzata, né crea necessariamente diritti generalizzati al di là della volontà degli individui. Le norme legali sono limitate alla prevenzione di danni concreti che possano essere inflitti ad altri individui. Esse non corrispondono alla volontà di alcun legislatore.

Questo punto merita di essere illustrato proprio con il caso del potenziamento umano, sia esso ottenuto tramite tecnologie genetiche o mediante qualsiasi altro mezzo.

Secondo i bioconservatori, le pratiche mediche a tal fine dovrebbero essere vietate – prima ancora che diventino disponibili – giacché il fatto stesso che alcuni individui diverrebbero fisicamente o mentalmente potenziati avverrebbe a detrimento di tutti gli altri. Ora, è lecito rilevare che da un punto di vista liberale tutto ciò ha poco senso. Invero, noi crediamo che ognuno tragga profitto dal fatto che in una società vi sono individui più dotati di altri. Il liberalismo rifiuta l’idea che l’uguaglianza materiale tra gli uomini, sia essa naturale o imposta, conduca ad una società più libera o prospera. Ciò che si richiede è che alle persone più dotate – per esempio, le persone fisicamente più forti – non sia consentito di utilizzare il loro potere per violare i diritti legittimamente spettanti ad altri individui.

Nel caso del potenziamento umano, perciò, ogni divieto legale dovrebbe derivare unicamente da una pretesa avanzata da individui specifici nei confronti di altri individui specifici. L’onere della prova dovrebbe gravare sugli attori.

La stessa logica regge per quasi tutte le altre questioni relative al progresso biomedico, come le tecnologie della fecondità o le decisioni relative alla fase terminale della vita. Ciò non significa dire che la logica del diritto renda la legislazione o l’intervento governativo superflui: appartiene infatti ai pubblici poteri la funzione di garantire il rispetto dei diritti di quelle persone che non hanno la capacità di provvedervi direttamente. Nel caso della fecondazione in vitro, per esempio, una proibizione generalizzata delle prassi che progetterebbero deliberatamente neonati con un handicap (come nel caso famoso, e prediletto dai bioconservatori, della coppia sorda che ha richiesto un figlio sordo) dovrebbe essere considerata legittima. Al contrario di ciò che dicono i bioconservatori, ciò non ha nulla a che fare con la "disumanità" della fecondazione in vitro. Ha piuttosto a che fare con il principio di non fare danno ad altri. Far deliberatamente nascere sordo un bambino è lo stesso che perforargli i timpani.

I liberali presumono che il futuro sia aperto, e che dipenda in modo cruciale dalle libere azioni degli umani. Per questa ragione, rifiutano l’idea che ad una singola entità, sia essa un "dittatore benevolente" o una maggioranza politica, sia data l’autorità o il potere di pianificare il futuro biologico della nostra società, in accordo con le loro specifiche visioni. Timori riguardo ai problemi che il progresso biomedico potrebbe comportare – e che certamente comporterà – non costituiscono una giustificazione per questa forma post-moderna di pianificazione sociale centralizzata. Una pianificazione centralizzata volta a non cambiare l’attuale stato di cose resta una pianificazione centralizzata.

I bioconservatori fanno un errore fondamentale nel pensare di avere, oggi, una conoscenza sufficiente per predire ciò che avverrà in un futuro remoto, o per predire che i problemi che si aspettano e temono resteranno insolubili. Hanno torto, infine, nel sostenere l’idea di una limitazione "razionale" della libertà. Vi è molta hybris nella posizione bioconservatrice, dato che nessuno oggi può pretendere di possedere la conoscenza morale e scientifica che sarà disponibile alle generazioni future.

Cosa non meno importante, i bioconservatori paiono ignorare la dimensione temporale del progresso biomedico. Le trasformazioni nelle prassi riproduttive, il potenziamento umano, le terapie genetiche e la clonazione riproduttiva genereranno necessariamente effetti su larga scala solo progressivamente e su un lungo lasso di tempo. Ciò significa che una libera società avrà la possibilità di valutare le loro effettive conseguenze sulle vite della delle persone, così come le loro effettive conseguenze per un ordine sociale sostenibile. Dovessero alcune prassi e tecnologie biomediche dimostrarsi in futuro dannose per i diritti umani ed il benessere, ben potranno essere ristrette o persino proibite su basi più razionali ed empiriche a tempo debito.

Per fornire un esempio: uno può legittimamente schierarsi contro la clonazione umana riproduttiva per ragioni di principio non-consequenzialiste. Ma è completamente irrazionale giustificare il bando della clonazione riproduttiva con argomenti ipotetici su quanto orribile sarebbe una società fatta di persone clonate. Dovesse la clonazione riproduttiva produrre queste conseguenze negative (per per gli individui e l’ordine sociale) immaginate dai bioconservatori, allora, in una società libera, la clonazione si arresterebbe. Gli individui (che si preoccupano per se stessi e per la loro prole) sceglierebbero liberamente di non farsi clonare, o un divieto legale verrebbe introdotto, basato sulla opinione della maior et sanior pars della gente – ben prima che la popolazione finisse per essere interamente composta da cloni. La dimensione storica della società e della vita umana è importante a questo riguardo. Come ci ricorda Hume, le generazioni di esseri umani non sono la stessa cosa delle generazioni di mosche, che vengono in esistenza e spariscono al tempo stesso.

Liberalismo e scienza

La storia del liberalismo, dalla fine del “particolarismo medievale” ad oggi, è spesso vista come la storia delle istituzioni politiche, della teoria morale, del diritto e dell’economia. Questa visione è fondamentalmente corretta, dato che il liberalismo è una teoria della libertà individuale e delle regole ed istituzioni che la rendono possibile. Sorvola d’altronde su un altro aspetto del liberalismo che fu fondamentale per le sue origini; un aspetto che ha subito un lungo periodo di declino nel ventesimo secolo, ma che è una volta di più divenuto cruciale a causa di una straordinaria accelerazione nel ritmo del progresso scientifico e biomedico di oggi.

Quest’aspetto trascurato è costituito dalla stretta connessione tra liberalismo e scienze naturali. «L’uomo può sapere, perciò può essere libero»: questa formula è uno dei fondamenti basilari su cui è stato costruito il liberalismo. La nascita della scienza moderna non ha significato soltanto una trasformazione del mondo naturale, ma anche una trasformazione del mondo morale, e persino una trasformazione del modo in cui gli umani percepivano se stessi. Invero, l’indagine scientifica – e in particolare la ricerca sperimentale – hanno assegnato un ruolo chiave alla libertà individuale di indagine della natura e alla ricerca della verità. Le nozioni di libertà individuale e di istituzioni politiche basate sul principio della limitazione del potere sovrano (costituzionalismo) hanno trovato la loro controparte nell’idea della libertà di ricerca: tale libertà riguarda ogni uomo ed ogni comunità scientifica, libera di esprimere risultati teoretici e sperimentali, senza censura da parte di una qualsiasi autorità esterna, sia essa di natura politica o morale. È corretto dire che "la liberté des modernes", per citare la famosa espressione di Benjamin Constant, è fluita dalla rivoluzione scientifica e dalla scienza moderna, non meno che dal costituzionalismo e dall’economia di mercato.

Ad ottocento inoltrato, in particolare nei paesi anglosassoni, era chiaro a tutti che la "libertà di sapere" era una parte essenziale della libertà individuale; che le istituzioni politiche liberali erano strettamente connesse con le istituzioni scientifiche, e che il progresso scientifico era una componente chiave del progresso in una libera economia di mercato.

La situazione cominciò a cambiare durante tale secolo, in particolare nell’Europa continentale, per due ragioni fondamentali. La prima fu che il pensiero socialista e positivista – specialmente francese; il suo più grande esponente fu Henri de Saint-Simon – consi-derava la scienza moderna e la tecnologia che la stessa rendeva possibile come uno strumento di pianificazione politica e sociale. I suoi sostenitori aderirono a principi che eliminavano la libertà individuale e rendevano la costruzione di un ordine cosiddetto "razionale" il loro obbiettivo chiave. La seconda ragione fu che un’ondata di nazionalismo politico ed economico si riversò su gran parte dell’Europa continentale. Lo Stato cominciò così ad intervenire nella ricerca scientifica e nelle sue istituzioni associate – università ed accademie incluse – con lo scopo di trasformarle in strumenti di dominio politico e militare, e di metterle al servizio di una visione protezionista e colbertiana dell’economia.

Tale situazione fu accentuata durante il ventesimo secolo con la nascita di regimi comunisti da un lato, e di regimi fascisti totalitari dall’altro; qui, la ricerca scientifica era soggetta al controllo dello Stato e legata agli obbiettivi dello Stato. In particolare, l’accoppiamento della scienza con la pianificazione economica fu uno degli elementi chiave della ideologia comunista. Anche nel mondo occidentale, la scienza venne sempre più ad essere vista come una organizzazione su larga scala (la cosiddetta "Big Science") all’interno della quale la libertà del singolo scienziato era secondaria – e addirittura controproducente – rispetto ai fini ultimi da perseguire. La scienza fu trasformata da un "ordine spontaneo" in un "ordine costruito". Questo mutamento trovò un complemento psicologico nell’approccio politico di parecchi scienziati, incluso uno dei più illustri scienziati del ventesimo secolo, Albert Einstein. La società non poteva più essere gestita secondo i principi del "vecchio" liberalismo e dell’economia di mercato, ma aveva invece da essere organizzata sulla base di cosiddetti "principi razionali" dedotti dalle scienze. In altri termini, la società doveva essere riorganizzata lungo linee socialiste.

Questo stato di cose ha fatto sì che la teoria liberale contemporanea vedesse qualcosa di essenzialmente estraneo e persino pericoloso nelle scienze naturali e nella loro ideologia; quest’ultima sembrava fornire argomenti a favore di una restrizione della libertà individuale a favore di un ordine pianificato. Questo approccio ha avuto le sue giustificazioni, persino a livello sociologico. Invero, se guardiamo alla storia della nostra associazione è facile constatare che pochi – benché eminenti – scienziati ne sono stati membri. 12

Ora, io credo che i problemi posti dal progresso biomedico offrano un’opportunità straordinaria al liberalismo per riaffermare la sua posizione progressista (e non conservatrice). Questa è la nostra chance di affermare la sua perfetta complementarietà (e non separatezza o neutralità) ai principi che guidano la ricerca scientifica e l’ideale del progresso scientifico e tecnologico. 13

Invero, mentre la rivoluzione scientifica e tecnologica dell’era moderna ha posto in grado gli umani di alterare radicalmente il loro ambiente naturale, la rivoluzione biologica e medica ha aperto la possibilità di trasformare – quanto meno parzialmente – la natura umana stessa. Non dovrebbe sorprendere che questa "seconda rivoluzione scientifica" porta con sé attese e timori tanto grandi quanto quelli che hanno accompagnato la nascita della scienza e del mondo moderno. E tali aspettative e timori sono destinati semmai a crescere mano mano che il pubblico gradualmente viene a comprendere quanto estesamente la nuova conoscenza scientifica potrebbe in-fluenzare le vite degli individui e della loro società nell’insieme.

Da un punto di vista liberale, è essenziale che la nuova rivoluzione scientifica non sia accompagnata dallo stesso approccio ideologico che ha ostacolato lo sviluppo di una visione scientifica nell’era moderna e che ha ostacolato il sorgere del liberalismo. Il liberalismo considera che l’avanzare della conoscenza è, di per se stesso, un valore etico fondamentale. La ricerca della verità è una della caratteristiche più profondamente umane e non si concilia facilmente con l’esistenza di autorità superiori che stabiliscono cosa è permesso e cosa non è permesso sapere. Il desiderio di saperne di più quanto alla propria conformazione biologica, giù sino all’ultimo mattone, non è hybris, ma piuttosto una manifestazione di quella sete di conoscenza che spinge gli esseri umani a studiare la natura.

Il liberalismo vede l’avanzare della conoscenza come una fonte fondamentale del progresso umano, dal momento che è in particolare attraverso la conoscenza – associata a libere istituzioni politiche ed economiche – che la sofferenza umana viene ridotta. In realtà, ogni non necessaria limitazione imposta alla ricerca scientifica, per timore di ciò che potrebbe comportare per l’umanità, serve solo a perpetuare la sofferenza che potrebbe essere altrimenti alleviata.

Né può essere invocato il fatto che il progresso biomedico sarebbe "innaturale". Il confine tra ciò che deve essere considerato "naturale" e ciò che non deve essere considerato tale dipende dai valori e dalle decisioni dell’uomo. E nulla è più legato alla cultura delle idee su ciò che costituisce la natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche ampliano l’orizzonte di ciò che è fattibile, i criteri per determinare ciò che è permesso e ciò che non lo è non possono in alcun modo dipendere da una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. I criteri possono solo sbocciare da principi chiari che siano razionalmente fondati sulla base del loro successo nell’indirizzare l’azione umana a beneficio di tutta l’umanità.

Mentre è vero che gli umani hanno sentimenti morali che si sono radicati nel tempo e che questi dovrebbero essere rispettati perché giocano un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali, è nondimeno vero che le intuizioni morali e le norme evolvono costantemente. Come Popper ci ha insegnato, dobbiamo seguire una teoria razionale della tradizione, mentre i conservatori fanno invariabilmente prevalere le tradizioni sulla razionalità. Le tradizioni intellettuali, così come le tradizioni morali, dovrebbero essere lodate nella misura in cui incorporino qualche obbiettiva e vera conoscenza quanto all’uomo ed alla società.

Il liberalismo considera il "pretendere di sapere" come uno degli errori fondamentali nella visione costruttivista della società. La pretesa di sapere più di ciò che sappiamo, e quindi di sostituire una cosciente pianificazione deliberata all’ordine spontaneo, rimpiazzando interamente le regole ereditate dall’evoluzione culturale, ha condotto alla "fatale presunzione" dei totalitarismi novecenteschi. Comunque, dovrebbe essere messo in chiaro che la consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza della natura e della società non ha nulla a che vedere con la credenza che dovremmo deliberatamente porre dei limiti all’avanzamento di tale conoscenza. Quest’ultima sarebbe una forma di superstizione non meno di quella rappresentata dalla "pretesa di sapere".

Conclusione

La questione del progresso biomedico è la prima, grande domanda che si presenta dopo il tramonto dell’ideologia socialista. Credo che ciò rappresenti una grande opportunità per il liberalismo. Invero, il liberalismo – sia a livello teoretico che politico – non è più nelle condizioni in cui è stato per più di un secolo e mezzo; il liberalismo, cioè, non ha più da allinearsi con una visione del mondo conservatrice al fine di opporsi al sorgere del socialismo – visto, giustificatamente, come il più grande pericolo per la libertà. Per usare un’analogia storica, potremmo dire che siamo ritornati ad un tempo in cui il dibattito era tra i Whig e i Tories, tra liberali e conservatori – l’età d’oro del liberalismo.

Vorrei concludere con due meravigliose citazioni di Hayek: «Che il progresso possa essere più veloce di quanto ci piacerebbe, e che sarebbe più facile da digerire se fosse più lento, non lo negherò. Ma, sfortunatamente, il progresso non può essere dosato. [...] Pretendere di conoscere la direzione più desiderabile per il progresso mi sembra la forma estrema di hybris. Il progresso guidato non sarebbe progresso» 14 . E ancora: «L’uomo non è e non sarà mai signore del suo destino: la sua ragione stessa sempre progredisce guidandolo nell’ignoto e nell’imprevisto dove impara nuove cose» 15 . In questa visione si colloca l’appoggio del liberalismo al progresso biomedico.

Note

  • 1 Il presente testo consiste nella Relazione presentata al The Mont Pelerin Society 60th Anniversary Meeting, "Technology and Freedom", Tokyo, September 7-12, 2008, Session 2: Biotechnology, Ethics and Free Markets.
  • 2 Vedi, per esempio, Leon R. Kass, Life, Liberty and the Defense of Dignity The Challenge of Bioethics, CA, Encounter Books, 2002 (trad. it.: La sfida della bioetica, Lindau, 2007) ; Francis Fukuyama, Our Posthuman Future, Consequences of the Biotechnology Revolution, NY, Farrar, Strauss and Giroux (trad. it.: L'uomo oltre l’uomo. Conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori 2002); Edmund Pellegrino, The Philosophy of Medicine Reborn. A Pellegrino Reader, edited by H. Tristam Engelhardt, Jr., and Fabrice Jotterand, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2008. Desidero sottolineare che nel raggruppare tutti questi accademici sotto l’etichetta di "bioconservatori" in alcun modo intendo ignorare le molte differenze che esistono tra i loro punti di vista.
  • 3 Friedrich A. Hayek, The Atavism of Social Justice [1976], in New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, London and Henley, Routledge and Kegan. Paul, 1978, pp.57-68; p.59. Per un esame della teoria evoluzionistica di Hayek che sottolinea il suo contenuto progressivo vedi Angelo M. Petroni, What is Right with Hayek’s Ethical Theory, “Revue européenne des sciences sociales”, XXXIII (1995), n.100, pp.89-126.
  • 4 Vedi Ronald Dworkin, Sovereign Virtue. The Theory and Practice of Equality, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2000.
  • 5 Un caso interessante è un’utopia positiva – una delle davvero poche in circolazione oggi – connessa tanto con il progresso biomedico quanto con gli avanzamenti delle scienze fisiche e dell’informatica. Questa visione è stata etichettata come "transumanismo", e consiste principalmente in un arco flessibile di idee e concetti – alcuni provenienti dalla scienza, altri dalla fantascienza – condiviso da un novero di persone molto differenziato. La World Transhumanist Association invoca "l’uso etico delle tecnologie per estendere le capacità umane". Niente di meno dell’immortalità è l’obbiettivo di alcuni sostenitori di questa utopia, mentre altri sono ansiosi di cominciare la colonizzazione di altri pianeti. Il transumanismo non riflette una singola posizione ideologica, giacché mentre alcuni auspicano un controllo sociale o globale sul futuro potenziamento fisico e mentale dell’uomo altri favoriscono posizioni libertarie.
  • 6 Vedi Friedrich A. Hayek, Law, Legislation and Liberty. A New Statement of the Liberal Principles of Justice and Political Economy, London, Routledge and Kegan Paul, 3 vols., 1973, 1976, 1979; Michael Polanyi, The Logic of Liberty, London, Routledge and Kegan Paul, 1951.
  • 7 Vedi Jürgen Habermas, Die Zukunft der menlischlichen Natur. Weg zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001 (trad. it.: Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi 2002.
  • 8 Su tutto questo argomento, vedi Angelo M. Petroni, Perspectives for Freedom of Choice in Bioethics and Health Care in Europe, in H. Tristram Engelhardt, Jr. (ed.), Global Bio-ethics. The Collapse of Consensus, M & M Scrivener Press, Salem, MA, 2006, pp.238-270. L’ideologia europea in materia di biomedicina è riassunta nel testo approvato dal testo approvato dal Consiglio d’Europa della "Convenzione per la protezione dei diritti umani e la dignità degli esseri umani con riguardo all’applicazione della biologia e della medicina" in Oviedo nel 1997.
  • 9 Friedrich A. Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., vol. 1, p. 56.
  • 10 Un libro interessantissimo è Human Cloning and Human Dignity. An Ethical Enquiry, The President’s Council on Bioethics, Washington, DC, 2002. Il Consiglio Presidenziale sulla Bioetica era all’epoca presieduto come noto da Leon R. Kass. Un’ampia esposizione della visione bioconservatrice è contenuta in Michael J. Sandel, The Case Against Perfection. Ethics in the Age of Genetic Engineering, Cambridge, MA, and London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2007. Sandel pure è stato membro dello stesso Consiglio. Vedi anche le proposte per la regolamentazione della ricerca sulle cellule staminali contenuta nel rapporto di Francis Fukuyama e Franco Furger, Beyond Bioethics. A Proposal for Modernizing the Regulation of Human Biotechnologies, Washington, DC, The Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, Johns Hopkins University, 2006. Vi è una scarsa coerenza tra la maggior parte delle proposte contenute in questo rapporto e le tesi che Fukuyama difende nel suo libro citato più sopra. Per esempio, il rapporto critica duramente la legislazione italiana sulla fecondazione in vitro perché sarebbe eccessivamente restrittiva. Dal lato progressista, una prospettiva molto approfondita e (blandamente) pro-mercato da parte di uno scienziato è offerta dal libro di Gregory Stock Redesign Hu-mans. Our Inevitable Genetic Future, New York, NY, Houghton Mifflin Company, 2002 (trad. it.: Riprogettare gli esseri umani. L’impatto dell’ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie, Orme Editori 2005). Ronald Bailey difende con entusiasmo la libertà di ricerca sulle cellule staminali in Liberation Biology. The Scientific and Moral Case for the Biotech Revolution, Amherst, NY, Prometheus Books, 2005, vedi in particolare il terzo capitolo (più in generale, il suo libro è un’eccellente esposizione degli argomenti a favore del progresso biomedico, e la visione di Bailey è considerata un esempio di "transumanismo liberale").
  • 11 Bruno Leoni, Freedom and the Law, Princeton, NJ, van Nostrand Co. Inc., 1961.
  • 12 L’illustre biochimico Bruce Ames è uno di questi.
  • 13 Un forte argomento in favore della complementarietà tra scienza e liberalismo è il fatto che tanto più vicine sono le istituzioni politiche di un paese all’ideale liberale, tanto più alto è il livello della scienza che produce e tanto più spontaneo il controllo di cui i suoi cittadini godono sulla sua direzione e risultati. I regimi totalitari – come nei paesi comunisti – soffrono di un livello scientifico inferiore e di un cattivo uso della scienza contro i diritti della loro popolazione.
  • 14 Friedrich A. Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., vol. 3, p. 169.
  • 15 Ibidem, p. 176.

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