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Divenire

Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e sul postumano

LA RIVISTA

Presentazione

Divenire è il titolo di una serie di volumi incentrati sull'interazione tra lo sviluppo vertiginoso della tecnica e l'evoluzione biologica dell'uomo e delle altre specie, ovvero votati allo studio dei rapporti tra la tecnosfera e la biosfera. Gli autori, provenienti da diverse aree disciplinari e orientamenti ideologici, sviluppano la propria analisi con occhio attento al probabile esito finale di queste mutazioni casuali o pianificate: il postumano. Sono dunque studi che sul piano temporale spaziano nel presente, nel passato e nel futuro, mentre sul piano della prospettiva disciplinare sono aperti a idee e metodi provenienti da diverse aree di ricerca, che vanno dalle scienze sociali alle scienze naturali, dalla filosofia all'ingegneria, dal diritto alla critica letteraria.

Ogni volume ha quattro sezioni. In Attualità compaiono studi attinenti a problematiche metatecniche del presente. Genealogia è dedicata a studi storici sui precursori delle attuali tendenze transumanistiche, futuristiche, prometeiche — dunque al passato della metatecnica. In Futurologia trovano spazio esplorazioni ipotetiche del futuro, da parte di futurologi e scrittori di fantascienza. Libreria è dedicata ad analisi critiche di libri su tecnoscienza, postumano, transumanesimo.
I volumi pubblicati finora (ora tutti leggibili in questo sito):

  1. D1. Bioetica e tecnica
  2. D2. Transumanismo e società
  3. D3. Speciale futurismo
  4. D4. Il superamento dell'umanismo
  5. D5. Intelligenza artificiale e robotica

Divenire 5 (2012) è interamente dedicato all'Intelligenza Artificiale (IA).

Intelligenze artificiose (Stefano Vaj) sostiene che il tema dell'automa (esecuzione di programmi antropomorfi o zoomorfi su piattaforma diversa da un cervello biologico) resta tuttora circondato da un vasto alone di misticismo: quando non viene negata in linea di principio la fattibilità dell'IA, ne viene esagerata escatologicamente la portata. (english version)

La maschera dell'intelligenza artificiale (Salvatore Rampone) indaga gli equivoci concettuali sottostanti alla domanda se una macchina abbia intelligenza o possa pensare e spiega perché l'IA debba nascondersi sotto la maschera del Soft computing.

Il problema filosofico dell'IA forte e le prospettive future (Domenico Dodaro) Analizza il tema della coscienza  semantica mettendo in luce i suoi  aspetti corporei e considera la possibilità di implementarli in sistemi artificiali. Sono valutati sia i limiti tecnologici e computazionali della riproduzione artificiale della coscienza (intesa come una facoltà del vivente) sia i programmi di ricerca più fecondi al fine di arginarli.

Cervelli artificiali? (Emanuele Ratti) espone il progetto di ricerca forse più ardito nel campo dell'IA che emula funzioni e organi biologici: il cervello artificiale di Hugo de Garis, introducendo concetti chiave di questo settore disciplinare come rete neurale e algoritmo genetico.

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Presentazione

Automi e lavoratori. Per una sociologia dell'intelligenza artificiale (Riccardo Campa) sposta l'attenzione sull'impatto economico e sociale della computerizzazione e della robotizzazione. Quali effetti sull'occupazione e quali correttivi per massimizzare i benefici e minimizzare gli effetti indesiderati? Proiettando il tema nel futuro, vengono analizzati i possibili scenari, in dipendenza di diverse politiche (o non-politiche) dello sviluppo tecnologico.

Il nostro cervello cinese (Danilo Campanella) riporta l'origine dei calcolatori moderni all'antica Cina. Utilizzando matematica, teologia e misticismo, i cinesi elaborarono i primi rudimenti del linguaggio binario, poi rubato dagli occidentali.

Alan Turing: uno spirito transumanista (Domenico Dodaro) Sono esposte le ragioni per cui Turing può essere definito un pensatore transumanista. Il matematico inglese è in genere descritto solo come padre dell'IA tradizionalmente intesa. L'analisi dell'autore dimostra invece la sua vicinanza ai temi delle "nuove scienze cognitive" e della computazione complessa (o ipercomputazione).

Passato, presente e futuro dell'Intelligenza Artificiale (Bruno Lenzi). L'articolo mostra, su un arco temporale molto ampio, fallimenti, riuscite, pericoli e scoperte delle scienze cognitive, sottolineando che l'IA non è questione solo tecnico-scientifica, racchiude germogli e frutti maturi in ogni area del sapere, e potrebbe essere molto diversa dall'intelligenza umana.

Post-embodied AI (Ben Goertzel). L'autore, uno dei principali sostenitori dell'AI forte, analizza la questione filosofica dell'embodiment: una intelligenza artificiale forte (capace di risolvere problemi in domini nuovi, di comunicare spontaneamente, di elaborare strategie nuove) deve necessariamente avere un body?

Nanotecnologia: dalla materia alle macchine pensanti (Ugo Spezza) spiega questo ramo della scienza applicata che progetta nanomacchine e nanomateriali in molteplici settori di ricerca: biologia molecolare, chimica, meccanica, elettronica ed informatica. L'articolo presenta le applicazioni già esistenti e le fantastiche potenzialità progettuali, dai nanobot per il settore medico ai neuroni artificiali.

Verso l'Intelligenza artificiale generale (Gabriele Rossi) introduce la Matematica dei Modelli di Riferimento degli iLabs ed esplora i potenziali vantaggi di questa prospettiva alla luce di alcune questioni teoriche di fondo che pervadono tutta la storia della disciplina.

Ich bin ein Singularitarian (Giuseppe Vatinno) è una recensione di La singolarità è vicina di Ray Kurzweil.

NUMERI DELLA RIVISTA

Divenire 1. Bioetica e tecnica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 2. Transumanismo e società

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 3. Speciale futurismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 4. Il superamento dell'umanismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 5. Intelligenza artificiale e robotica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

RICERCHE

1

2

3

4

CHI SIAMO

Comitato scientifico

Riccardo Campa
Docente di metodologia delle scienze sociali all'Università Jagiellonica di Cracovia
Patrizia Cioffi
Docente di neurochirurgia all'Università di Firenze
Amara Graps
Ricercatrice di astronomia all'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario
James Hughes
Docente di sociologia medica al Trinity College del Connecticut
Giuseppe Lucchini
Docente di statistica medica all'Università di Brescia
Alberto Masala
Ricercatore di filosofia all'Università La Sorbonne (Paris IV)
Giulio Prisco
Vice-presidente della World Transhumanist Association
Salvatore Rampone
Docente di Sistemi di elaborazione delle informazioni all'Università degli studi del Sannio
Stefan Lorenz Sorgner
Docente di filosofia all'Università di Erfurt
Stefano Sutti
Docente di diritto delle nuove tecnologie all'Università di Padova
Natasha Vita-More
Fondatrice e direttrice del Transhumanist Arts & Culture H+ Labs

Ait

L'AIT (Associazione Italiana Transumanisti) è un'organizzazione senza scopo di lucro con la missione di promuovere, in ambito culturale, sociale e politico, le tecnologie di potenziamento dell'essere umano.

Fondata nel 2004, è stata formalizzata mediante atto pubblico nel 2006 ed ha avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento.

Sede legale AIT: via Montenapoleone 8, 20121 Milano

Sito internet AIT: www.transumanisti.it (>)

Pubblica questa rivista: Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano

Curatore: Riccardo Campa

Segretaria di redazione: Nicoletta Barbaglia

Art director: Emmanuele Pilia (>)

Gruppo di Divenire su Facebook: (>)

Contatti

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I valori nell’era della tecnoscienza: verso una naturalizzazione dell’etica

Autore: Alberto Masala

da: Divenire 1, Attualità () | pdf | stampa

Verso una naturalizzazione dell’etica

È mio obiettivo esplorare il contributo che la naturalizzazione della morale può apportare al dibattito sulla validità di valori transumanisti come l’estensione indefinita di quantità e qualità di vita per tutte le creature senzienti che siano in grado di goderne. Data la complessità del problema, in questo articolo mi limiterò a sviluppare il quadro teorico e meta-etico. L’enfasi contenutistica sulla tecnoscienza rende il transumanismo responsabile di giustificare la validità delle proprie premesse morali in un mondo fisicalista. L’invito ad aprire gli occhi su un futuro tecno-scientifico non può basarsi su valori la cui presunta validità è essa stessa indimostrabile nel quadro teorico e culturale che viene promosso. Cercherò quindi di mostrare che una concezione scientifica del mondo è incompatibile con un universalismo morale, anche se solo limitato alla specie umana.

Le due limitazioni fondamentali di questa breve indagine saranno l’impossibilità di rispondere a tutte le critiche provenienti da tradizioni di riflessione sulla morale completamente aliene all’approccio naturalista (si vuole esplorare il nesso tra due temi, il naturalismo etico e il transumanismo, non una difesa generale dei due approcci) e, come vedremo, la necessaria dipendenza di quest’ultimo dallo stato attuale delle nostre migliori conoscenze scientifiche sulla psicologia umana e sul posto dell’uomo e di altri esseri senzienti in un universo fisicalista. In un successivo articolo più centrato sulle conseguenze dirette per il transumanismo, che spero di pubblicare prossimamente su questa rivista, mostrerò che la strada da battere è quella di un’epidemiologia dei valori morali: a livello sostanziale una teoria del genere favorisce i valori transumanisti di longevità radicale e qualità di vita crescente per tutti gli esseri senzienti.

Il problema della naturalizzazione della morale

Con 'naturalizzazione della morale' da un punto di vista storico ci si riferisce a un tema concernente l'influenza della scienza nella costruzione di una teoria morale e dibattuto essenzialmente nel contesto della disciplina istituzionalizzata progressivamente come 'filosofia morale' (moral philosophy) nell’ambiente accademico anglosassone nel periodo che va dalla seconda metà del XIX secolo a tutto il XX. Gli antecedenti della questione potrebbero essere fatti rimontare lontano, tra i più prossimali impossibile non citare il filone più scientista dell'illuminismo e il lavoro di filosofi utilitaristi e scientisti come Bentham. Ugualmente, tantissimi sono gli influssi da tradizioni diverse, tra cui primeggiano il positivismo ottocentesco europeo e la filosofia di Nietzsche. Ciononostante, in ambienti anglosassoni il problema è letteralmente 'esploso' nella seconda metà dell’Ottocento con la co-scoperta dei principi dell'evoluzione da parte di Darwin e Wallace e l'apparente minaccia che questi pongono allo statuto della morale, definitiva scossa di assestamento di un terremoto già annunciato da decenni dalla scoperta sistematica di fossili la cui esistenza pareva incompatibile con il creazionismo e le sue varianti.

Il problema teorico profondo che, dopo la prima esplosione, nonostante i vari tentativi di rimozione sistematica, non ha mai lasciato veramente la scena – diventando anzi sempre più urgente e più grave – è quello dell'influenza della nuova concezione scientifica dell'uomo e del mondo sullo statuto profondo della morale, e su come questo possa influire sulla vita reale della gente e il futuro dell'uomo. Nei termini più rigorosi usati in questo dibattito, la questione è il ruolo che scoperte scientifiche fattuali possono giocare in meta-etica e in etica normativa, piuttosto che semplicemente in etica applicata. La meta-etica si pone le questioni ontologiche più fondamentali sulla morale (che tipo di proprietà sono il giusto o il bene? Proprietà fisiche, trascendenti, oggettive, soggettive?) e l’etica normativa si pone delle questioni sostanziali su quali siano i valori, i doveri o le virtù da coltivare nel proprio carattere (fedeltà, giustizia, rispetto, diritti umani?). L'etica applicata si interessa all'applicazione di questi valori a problemi concreti della vita reale.

Ora, una delle ragioni per cui queste distinzioni sono spesso criticate in quanto astratte è che i valori, specificati in generale, non 'contengono' già la risposta a quello che si dovrà fare: per esempio, cosa vuole e vorrà dire rispettare l'autonomia del prossimo in un mondo sempre più interconnesso grazie a internet e altre tecnologie? Impossibile saperlo senza un'analisi dettagliata di queste ultime: un esempio di come anche dettagli fattuali del mondo tecnologico possono essere decisivi per dare un qualche senso a dei valori predefiniti. Tuttavia, cito questo caso per dire che, se è solo a questo genere di problematiche che ci si sta riferendo, non si sta facendo dell'etica naturalizzata nel senso che interessa il dibattito che ci concerne. Il punto deve essere un ruolo giocato dalla nuova immagine scientifica nel determinare la natura profonda della dimensione morale. Quando la struttura di una teoria e i valori scelti sono predefiniti rispetto all'entrata in gioco della scienza, la questione è già evacuata. I filosofi naturalisti mirano in alto e, come vedremo, hanno un armamentario di tutto rispetto. Sarà chiaro che non si tratta solo di far valere (punto certo fondamentale) un'immagine di fondo scientifica e fisicalista dell'universo: l'ambizione è addirittura mostrare che scoperte recenti sulla psicologia umana (che in certi casi non hanno più di 5 o 10 anni) decidono punti cruciali della questione.

Il primo attacco naturalista alla filosofia morale tradizionale: da un realismo forte a un 'quasi-realismo'

È impossibile capire cosa cambi l'avvento della scienza senza partire da cosa si sarebbe voluto (e si vuole ancora) ottenere prima in teoria morale se non fosse stato per questa ingerenza. Lontani dal relativismo etico diffuso oggi dalla svolta ermeneutica in Europa, i teorici anglosassoni le loro convinzioni morali ce le hanno sempre avute. Anzi, la peculiarità principale del metodo che contraddistingue la moral philosophy anglosassone è di partire da un certo insieme di certezze morali che si hanno già, per esempio «mai torturare un bambino», per trovare una teoria più astratta da cui poi si possano derivare le stesse come conseguenze. Queste certezze morali, chiamate intuizioni, riflettono convinzioni diffuse, non solo su casi specifici («non butterei giù da un ponte qualcuno che non c'entra niente per fermare un treno e salvare tre persone»; «posso deviare un treno da un binario dove ucciderà tre persone a un binario dove ne uccide solo una») ma anche su principi generali («uccidere è peggio di lasciar morire indirettamente per inazione») e la teoria sarà giudicata in base alla sua capacità di rispettarne il più possibile. Per esempio, uno dei grossi problemi dell'utilitarismo è sempre stato quello di avere conseguenze contro-intuitive come il fatto che massimizzare l'utilità richieda di uccidere un innocente per salvare tre condannati. Per comprendere gli sviluppi successivi, è importante sottolineare la differenza tra questa morale di base intuitiva ed evidente del senso comune e le teorie più informative e meno ovvie che si sviluppano a partire da essa. La prima costituisce un vero e proprio terreno sacro per i filosofi morali: la maggior parte di loro sarebbe disposta a sacrificare dieci volte la loro stessa teoria, difesa per decenni, piuttosto che accettare la conseguenza che gran parte della morale intuitiva di base possa essere falsa.

Detto questo, qual è il sogno di un teorico morale? E quello che in meta-etica si chiama 'realismo forte' sulla morale. Si tratta di poter dire che:

  1. ci sono verità morali oggettive, universali (valide per qualsiasi essere razionale) e indipendenti da quello che per effetti di contingenze varie possano pensarne degli esseri senzienti in un momento storico preciso
  2. in condizioni ottimali (se non è confuso, indottrinato, malato, alterato, poco informato) e con un tempo a disposizione sufficiente per riflettere un essere razionale dovrebbe riconoscere questa validità e essere motivato a rispettare le verità morale in questione
  3. queste verità comprendono certamente almeno le certezze di base del senso comune (es. «Non torturare i bambini»), nonché, ogni filosofo lo spera, le conseguenze della sua teoria preferita.
  4. A livello pratico, nella gestione dei rapporti tra culture diverse, questo dovrebbe permettere di dire che colui che tortura un prigioniero si sbaglia, ha torto, in maniera altrettanto definitiva di uno che pensasse che 2+2=5.

Sempre a livello pratico, per chi propone un programma di moralizzazione rivolto alla propria cultura o ad altre, due aspetti dell'ideale espresso da questi quattro punti sono veramente decisivi. Mentre, come vedremo, si può discutere della pretesa cosmica di universalità della morale per ogni essere razionale, se si vuole aver ragione contro l'amoralista umano non si può in nessuna maniera transigere
a. sulla rappresentazione del suo stato mentale come corrotto, confuso, manipolato o almeno disinformato
b. sulla necessità che chi riconosce la morale ne sia motivato conseguentemente in pratica.

Anche se per ogni moralista attivo nel mondo reale i tempi stringono sempre (immaginate che i dirigenti cinesi chiedano 30 anni per riflettere sull’esistenza di diritti umani per i prigionieri...), il tempo necessario per convincere l’amoralista non è un punto fondamentale del quadro teorico, visto che ha senso pensare che ci voglia moltissimo per superare uno stato profondo di ignoranza o condizionamento ideologico. È invece assolutamente cruciale mostrare che l'amoralista è adesso in uno stato di corruzione mentale o di ignoranza: l'idea stessa che qualcuno possa essere perfettamente normale tranne per il fatto che non accetta le basi della morale toglie per principio ogni senso all’approccio tradizionale. Anche se tutti fossero destinati a capire, se qualcuno potesse fregarsene in pratica restando perfettamente normale tranne per il fatto che se ne frega (anche se capisce), il tentativo di convinzione non avrebbe senso. 1

La storia della naturalizzazione della morale è fondamentalmente la storia di come la scienza ha rovinato progressivamente la festa dei filosofi morali realisti. Ma prima di continuare, bisogna evidenziare due dimensioni della struttura logica del problema. Perché il progetto del realista morale vada in porto, si devono centrare due obiettivi: da un lato si deve giustificare l'origine della 'forza' delle norme e dei valori, dall'altro si deve provare che questa forza sostiene quello che si voleva e non altro. La forza normativa è, come dice l’espressione stessa, ciò che giustifica che certi doveri siano più perentori che altri: «salva tuo figlio» è un'ingiunzione molto più perentoria e categorica di «fatti la barba» (cosa che può avere una certa utilità strumentale). Una teoria morale deve spiegare cos'è questa misteriosa forza associata a certi valori e doveri (quelli morali) e non ad altri. Un aspetto fondamentale della forza normativa è l'autorità ultima che la sostiene: perché devi salvare tuo figlio, perché lo dice Dio, perché è il dovere del tuo ruolo di padre, perché lo desideri sopra ogni cosa? Ma a parte la forza inaggirabile di certe norme, una teoria morale deve giustificare le aspettative riguardo a cosa sarà sostenuto da questa forza e cosa no. La questione può essere rappresentata in maniera certo prosaica ma efficace (dissacrare e sdrammatizzare è utilissimo su queste tematiche) con una metafora idraulica: la fonte dell'acqua è l'autorità ultima, una norma è un segmento di tubatura nella rete, e la forza normativa di una norma è il calore dell'acqua che scorre nel segmento di cui è questione. La metafora rappresenta anche l'aspetto strutturato delle norme morali: se una norma si giustifica solo perché facilita marginalmente la difesa di un altro valore, essa dipenderà da quest'ultimo e la sua importanza sarà strumentale e minore rispetto al valore di origine, come una tubatura che sia alla dipendenza di un'altra zona dell'acquedotto e ne riceva solo acqua più fredda. L'obiettivo del teorico morale tradizionale è mostrare che le tubature delle intuizioni fondamentali del senso comune ricevono sempre acqua caldissima. L'attacco del filosofo naturalista si struttura in due fasi, che corrispondono a due successive rinunce rispetto all'ambizione iniziale. La prima fase consiste nel passaggio da un realismo forte a un 'quasi realismo', la seconda nella critica di una prospettiva 'quasi-realista'.

Il primo attacco si concentra essenzialmente sulle ambizioni metafisiche esagerate del realismo forte, incompatibili con una visione scientifica del mondo. L’obiettivo polemico è duplice:

  1. non è accettabile il fatto che esistano verità morali universalmente valide e indipendenti dalle strutture cognitive, dai desideri e dalle esigenze degli organismi che dovrebbero rispettare queste presunte verità platoniche
  2. con questa possibilità, nel rispetto di una visione scientifica del mondo, si escludono due possibili fonti ultime dell’autorità normativa (i gestori del nostro acquedotto): Dio e una presunta razionalità universale che sarebbe capace di fissare norme inevitabili e motivanti per qualsiasi essere razionale.

Se a causa di limitazioni di spazio dovremo dare per scontato qui che Dio come fonte ultima delle norme non figura nell’immagine scientifica del mondo, invece varie fonti di ricerca convergono sull'idea che esseri razionali diversi da noi potrebbero avere una morale diversa. Nello studio della proto-moralità di varie specie animali, forme di collaborazione e coordinazione sofisticate e di attenzione agli individui deboli e malati in certi contesti convivono con il più spietato egoismo interessato in altri, che sono la maggioranza. Questo per dire che non sembra che ci sia una scala evolutiva universale in cui ci si avvicina scalino dopo scalino a una moralità di tipo umano, nel senso specifico e sostanziale della morale del senso comune. Più specificamente, tre argomenti sono globalmente decisivi contro l'idea di una super-razionalità universale: l'argomento dell'alieno classista, del robot psicopatico e dell'impossibilità di accesso agli editti platonici.

Alieno classista. Tutto quello che sappiamo della teoria dell'evoluzione e nel recente campo dell’exobiologia 2 permette di immaginare che alieni o esseri intelligenti ipotetici avrebbero sicuramente sviluppato varie forme di collaborazione e limitazione dei danni che possono essere inflitti agli altri. Questo è forse necessario per l’evoluzione dell’intelligenza, che sulla terra è associata a specie che hanno una grande competenza sociale e collaborativa (delfini, scimpanzé). Avrebbero una morale, ma non sarebbe necessariamente uguale alla nostra. Potrebbero, per esempio, essere totalmente discriminatori rispetto ad altre specie e sfruttatori dei più deboli nella loro comunità. Anche l'essere umano è stato spesso razzista e classista, ma questi alieni potrebbero esserlo tutti, senza eccezione, esitazione, rimorso o speranza di cambiamento, a causa di fattori profondi della loro struttura cognitiva. Quindi l'idea di un codice morale fissato da una super razionalità (abbiamo già escluso la possibilità della volontà divina) condivisa da tutti gli esseri senzienti se non sono malati, alterati o corrotti è incoerente. Un alieno intelligente potrebbe essere sanissimo, informato di tutti i fatti empirici pertinenti e non avere la minima esitazione a ucciderci come dei ragni, trattamento che potrebbe del resto riservare ai perdenti nella sua comunità.

Robot psicopatico. Un altro argomento contro la super razionalità universale è che, per il momento, sembra concettualmente coerente la possibilità di progettare un robot altamente intelligente e psicopatico, per esempio un robot assassino. Si tratterebbe di un essere intelligente, perfettamente funzionante e con una morale diversa dalla nostra (se ne ha una). L'argomento del robot psicopatico è importante perché la questione di cosa sia probabile che evolva o no resta ancora aperta per la ricerca futura. Il fatto che la nostra specie sia evoluta in un contesto di piccoli gruppi in competizione e in guerra tra di loro non lascia ben sperare per i difensori dell'idea che intelligenza e moralità vanno a braccetto, ma, visto che alla fine nell'uomo almeno a livello latente l'azione di vari principi morali si manifesta, che l'evoluzione spontanea crei per forza degli agenti razionali che rispettano la moralità del senso comune non è ancora rigorosamente escluso. Ritengo la cosa estremamente implausibile, ma la questione è essenzialmente empirica e teoricamente potrebbe essere studiata tramite l'evoluzione di agenti virtuali in simulazioni, nel campo della vita artificiale. La possibilità di costruire un robot psicopatico esula invece dal problema del potenziale dell'evoluzione naturale, si tratta di un argomento indipendente. La tentazione di usare l'esempio degli psicopatici reali, come prova che un robot psicopatico è possibile, è forte, ma non batterò questa strada che ci invischierebbe in complicazioni inutili riguardo alla differenza tra sano e patologico.

Impossibilità di accesso agli editti platonici. Infine un terzo argomento è di ordine conoscitivo: anche concedendo che esista il cielo platonico degli editti della super razionalità universale, come faremmo a sapere quali sono? Corrispondono alle nostre convinzioni morali? Immaginiamo di avere un dibattito spassionato con il nostro alieno razzista e classista: come faremmo a convincerlo che noi siamo in grado di sintonizzarci con il mondo platonico e lui no? Perché la morale platonica non dovrebbe essere di uccidere i deboli e i diversi? Come facciamo a saperlo?

Un'obiezione che circola abbastanza contro l'argomento dell'alieno classista in ambienti analitici consiste nell'adottare quella che in gergo tecnico si chiama una teoria ricca o 'spessa' (thick) 3 della razionalità, che include nel concetto di razionalità certi valori sostanziali e considera razionale per definizione solo un essere che riconosca la morale del senso comune. L'alieno classista sarebbe quindi irrazionale per definizione, il che elimina il controesempio all’ipotesi di una super-razionalità rispettata da tutti gli esseri razionali sani. Non mi sembra difficile notare che la risposta è completamente ad hoc, tanto più che il problema di come facciamo a sapere qual è la razionalità 'ricca' giusta (la nostra o quella dell'alieno classista) non è risolto.

Una seconda obiezione ci invita a prendere in considerazione periodi evolutivi più lunghi: l'evoluzione dell'uomo non è finita e neanche quella dell'alieno classista, e magari le due specie sono destinate a evolvere verso una super intelligenza 'buona'. Si possono ribattere due cose: primo, che l'evoluzione a lungo termine converga necessariamente verso un'intelligenza (super o no) buona nel senso della morale del senso comune è una pura speculazione da non prendere sul serio fino a che non ci sarà uno straccio di argomento (una tesi del genere potrebbe essere provata facendo girare tantissime simulazioni di agenti virtuali in un mondo sufficientemente ricco); secondo, se dobbiamo stare al gioco, che è concettualmente possibile che una super intelligenza buona, per noia o per errore, crei...una super intelligenza psicopatica! Tra l'altro, una discussione tra le due riaprirebbe anche il problema dell’accesso agli editti platonici.

Una terza obiezione punterebbe su di una strategia di definizione della razionalità di ispirazione trascendentale (per poi escludere l'alieno classista dagli esseri razionali grazie a questa mossa), nel senso kantiano di tentativo di derivazioni di categorie necessarie del pensiero: se ci sono delle strutture necessarie del pensiero, della coscienza o della condizione senziente, chi non le esprime si troverebbe in una situazione di auto-contraddizione e irrazionalità. Potrebbero esserci delle forme necessarie del pensare che sono negate se un essere non accetta la moralità del senso comune: per fare un esempio caricaturale che renda l'idea, supponiamo che ci sia una maniera di mostrare che l'aspirazione all'assoluto è una categoria trascendentale del pensiero. Si potrebbe tentare di dimostrare che questa aspirazione è negata se non si accettano i principi e le intuizioni del senso comune. Anche se qui ci è impossibile entrare nei dettagli della filosofia trascendentale (soggetto filosofico affascinante ma estremamente tecnico), il problema principale di una strategia di questo tipo è che – ammesso e non concesso che i termini in cui si esprime siano accettabili in un contesto naturalista – o commette una petizione di principio o non parte da principi abbastanza sostanziali per sorreggere la morale del senso comune. Nel secondo caso, sembra che da strutture formali o troppo generali della coscienza o del pensare non si possa derivare niente di così sostanziale da essere in contraddizione con il senso comune. Nel primo caso, se il filosofo trascendentale pensa che il pensare è necessariamente legato a una tensione verso l'assoluto intesa in termini sufficientemente sostanziali da escludere ogni negazione della morale del senso comune, ciò deriva dal fatto che è probabilmente condizionato dalle intuizioni morali comuni fin dal principio. Il fatto che pensiamo che ricercare l'assoluto sia incompatibile con torturare i bambini si spiega più facilmente supponendo che torturare i bambini ci pare assurdo sempre e comunque.

Critica di un universalismo quasi realista

Il realismo forte è quindi inaccettabile. Il bello, però, deve ancora arrivare. Da un lato, tutto quello che abbiamo detto non è ancora incompatibile col fatto che l'acqua calda arrivi in un modo o nell'altro ai rubinetti della morale del senso comune nel nostro acquedotto normativo. Dall'altro, anche se gli argomenti scientifici recenti come quelli dell'exobiologia sono fondamentali per la sensibilità di un teorico naturalista, l'idea che la morale non si fonda più né in Dio né in un cielo platonico circola già da vari decenni in moltissimi ambienti intellettuali, senza contare il fascino esercitato dalla figura dell'alieno intelligente e spietato, considerato molto più che concettualmente possibile da molti. Niente di nuovissimo sotto il sole per il momento, almeno oggi, se non ai tempi di Darwin.

Sennonché, la grande idea che potrebbe salvare capra e cavoli è anch'essa attualmente presa massivamente di mira dai filosofi naturalisti. Questa idea è chiamata 'quasi-realismo': si stratta semplicemente di ipotizzare che, se non ci sono verità morali oggettive assolute, almeno ci sono verità morali oggettive per l'uomo. Lasciando per i secoli a venire i problemi spinosi di diplomazia galattica con alieni classisti e robot psicopatici, ci possiamo limitare a relativizzare la sfera di pertinenza della morale all'uomo. Certo, relativizzare alla specie umana e non parlare più né di dei né di razionalità suprema può far perdere un po' di teatralità e di enfasi, l’acqua forse ha perso uno o due gradi, ma, per il resto, tutto è sotto controllo. È ancora possibile mostrare che gli uomini non dovrebbero torturare, uccidere una persona per salvarne tre o considerare che lasciar morire è equivalente a uccidere. Del resto la relativizzazione riguarderebbe i soggetti per cui sono valide le norme, non il contenuto delle stesse. Cioè, una norma che è valida solo per noi potrebbe imporci di rispettare tutti gli esseri senzienti, anche se alcuni, abbiamo visto, non ricambierebbero il favore. In pratica per noi non cambierebbe niente, a livello di conseguenze pratiche si potrebbe ancora considerare che chi non riconosce (tra gli uomini) che «non si può uccidere un innocente per salvarne tre prigionieri» si sbaglia oggettivamente. Per questo la posizione si chiama quasi realismo, perché, per quello che ci riguarda, tutto procede 'come se' si potesse essere ancora realisti duri sulla morale. Che tipo di difesa di una posizione quasi realista hanno elaborato i filosofi? Innanzitutto, c’è ancora una scelta importante da fare: escludere dio e il cielo platonico non ci dà ancora una risposta positiva al problema della fonte ultima della normatività. Nella letteratura a questo punto sono presenti due soluzioni: un approccio 'motivazionale' in cui la forza della normatività deriva dalle esigenze, dal benessere, dai valori e dai desideri degli individui e uno 'teleologico', in cui la normatività ci spinge a sviluppare appieno la 'nostra natura'.

Quest'ultima strategia, sviluppata da alcuni teorici dell'etica della virtù si ispira, oltre che alla tradizione aristotelica, all'etologia e alla botanica. In queste scienze, ha senso parlare di un individuo (animale, pianta) che sviluppa appieno i caratteri della specie: un cane può sviluppare al massimo tutte le risorse e le potenzialità canine (fiuto, capacità di correre, di cacciare, ecc.), stessa cosa per un gatto o una lepre. L'idea è che la fonte ultima della normatività è, per ogni individuo di una specie, diventare un esemplare pienamente sviluppato di quella specie. Così l'uomo dovrebbe sviluppare al massimo il suo potenziale (intelligenza, forza, conoscenza): da qui deriverebbe la fonte ultima della validità della morale. Il principio di primo acchito sembra promettente dal punto di vista degli ideali transumanisti, ma l'apparenza è ingannevole. Non bisogna lasciarsi confondere: dire che diventare un individuo esemplare della specie è la fonte ultima della normatività ancora e limita le potenzialità di sviluppo a uno standard di 'esemplare tipico', niente di più e soprattutto niente di diverso: le norme sono promosse indipendentemente dai desideri e le aspirazioni degli individui implicati.

Lasciando da parte per il momento gli interessi transumanisti, quest'ultima osservazione tocca il vero problema dal punto di vista del programma quasi-realista. Ricordiamo che, l’obiettivo del filosofo morale quasi-realista è quello di dire che un essere umano sano, informato, non confuso, non manipolato dovrebbe arrivare a riconoscere e essere motivato dalle norme morali oggettive e valide per tutta la specie. Ora, il problema dell'idea che la fonte ultima della normatività sia la 'tipicità naturale' è che come fonte non ha nessuna capacità motivante intrinseca: certo, sviluppare le nostre capacità, la nostra intelligenza, la nostra forza, ci stimola, ma solo perché appunto tutto ciò ci piace, non perché è un modo di diventare un individuo ottimale della specie. In altre parole, se ci fosse un aspetto caratteristico della specie che non ci interessa, non saremmo per niente motivati ad acquisirlo, e insistere dicendo «ma è tipico dell'uomo» non ci smuoverebbe di una virgola. Un feticista, un sadomasochista o un transessuale non sarebbero certo convinti dalla presunta forza normativa dell'ideale di tipicità umana. La normatività di questo ideale è interamente parassitica rispetto a quella dei nostri valori, e si situa nell'intersezione tra quello che è tipico e quello che esprime di fatto i nostri desideri e aspirazioni. Il lavoro esplicativo in ultima analisi è fatto da un elemento motivazionale.

Sembra che abbiamo trovato almeno un pezzo del puzzle: in una visione scientifica del mondo, la fonte ultima della normatività non possono essere che le aspirazioni, il benessere, i valori e i desideri degli individui. È necessaria ancora una precisazione, in riferimento ad un individuo: le norme che hanno valore su di lui non possono derivare che dai suoi valori, o meglio, da quelli che riconosce essere i suoi valori se non è drogato o manipolato. Questa tesi in gergo tecnico si chiama 'egoismo fondazionalista': l’idea che la fonte ultima delle norme che mi si impongono non può che essere costituita dai miei valori autentici. La tesi non c'entra niente con un egoismo sostanziale o un individualismo: è assolutamente compatibile con un altruismo assoluto del sacrificio alla nazione o alla comunità. Il punto teorico fondamentale è che, dal punto di vista di un quasi realista – e supponendo che sacrificarsi per la patria sia una norma morale – per poter convincere qualcuno della necessità del sacrificio deve essere possibile mostrargli che il sacrificio per la collettività corrisponde in realtà ai suoi veri valori. Altrimenti, il kamikaze potenziale potrebbe fregarsene e ritorneremmo all'incapacità costitutiva di motivare delle norme, problema che farebbe saltare il progetto quasi-realista.

Questa osservazione ci permette di scartare un altro gruppo di teorie sulla fonte ultima della normatività in circolazione in ambito naturalista: si tratta di teorie che si ispirano ancora una volta all'etologia e alla botanica e equiparano la morale a un pacchetto di soluzioni ben adattate per una specie in un dato ecosistema. Come le api, le formiche o i conigli si organizzano bene e se la cavano seguendo una serie di prassi nel loro ecosistema, gli esseri umani vivono bene e risolvono una serie di problemi di coordinazione nella loro nicchia ecologica grazie alle norme morali. Di nuovo, il problema è sempre lo stesso: non è che sia falso che l’uomo vive bene nel suo ecosistema grazie alle norme morali, ma un uomo sano, non condizionato e informato non si prodiga per salvare un bambino indifeso perché pensa che è una pratica che corrisponde a un pacchetto di norme che permettono una buona vita per il gruppo nell'ecosistema umano. Sembra una banalità ma non lo è: in un universo fisicalista non c'è l'intervento della grazia, l'illuminazione divina o una rivelazione mistica: un organismo senziente può essere portato a mobilitarsi unicamente a partire da valori e obiettivi che fa pienamente suoi. In qualsiasi approccio tradizionale ovviamente è necessario che i valori, per esempio ispirati da Dio, poi siano interiorizzati dall'individuo e diventino i suoi, ma questo sposta comunque la fonte ultima dell’autorità normativa a Dio. La catena di giustificazione per un naturalista si ferma prima: i valori che fa di fatto suoi non sono validi per lui perché in ultima istanza coincidono con la volontà di Dio, la super razionalità, la natura umana o il bene del gruppo. Saranno dei valori di sacrificio? Tanto meglio per il gruppo, ma restano validi per lui solamente perché di fatto si stabilizzano (se succede) in quanto suoi. Quali sono le conseguenze dell'egoismo fondazionalista per il progetto quasi-realista? Dire che qualsiasi sistema di valori e di desideri che si stabilizzano in un individuo – purché non manipolato – è in ultima istanza valido per lui sembra aprire la porta a un relativismo terrificante, addirittura su scala individuale, neanche solo culturale. In realtà è un’inferenza indebita. Dipende da come funziona di fatto la psicologia umana. Il quasi realista scommette su un universalismo cognitivo della specie, tale da far si che, su un insieme basico di principi intuitivi – sempre la famosa morale del senso comune alla base delle teorie più raffinate della psicologia morale – tutti gli individui sani, non condizionati, informati e con un tempo sufficiente a disposizione per riflettere si troverebbero d'accordo. In parole povere, se non sei pazzo e non ti hanno fatto un lavaggio del cervello ideologico, discutiamo qualche mese e vedrai che sarai d'accordo con l'immoralità di fare del male gratuitamente agli altri, uccidere una persona per salvarne tre, equiparare l'inazione all'omicidio, ecc. In realtà, ovviamente, questo è solo l'inizio. Il filosofo morale, che si sconvolge se gli tocchi il senso comune, se tutto va bene vuole estendere lo statuto di «oggettivamente valido per il genere umano» a tesi più interessanti, per esempio i diritti umani.

Le novità e le cose interessanti iniziano solamente adesso. Fino ad ora, niente di particolarmente eclatante: con la benedizione di molti, abbiamo mandato a casa Dio, un empireo di verità platoniche e definitivamente riabilitato l'idea dell'alieno spietato, purtroppo con la spiacevole conseguenza di predire un futuro buio per la diplomazia galattica. L'idea di un egoismo fondazionalista, se coniugata con un universalismo adeguato della cognizione morale nella nostra specie, si riduce a un'espressione di una sensibilità autonomista diffusa e si limita ad affermare che a nessuno possono essere imposti valori che non riconosca, salvo poi che i veri valori sono gli stessi per tutti. Tuttavia, la trappola metodologica è già attivata. Infatti, segue dal nostro discorso che l'influenza dell'egoismo fondazionalista (universalismo o relativismo?) dipende da una questione che è al 100% empirica, ovvero da come funziona la nostra cognizione morale. E a chi rivolgersi per questioni psicologiche fattuali, se non alla psicologia? Guarda caso, lo studio della cognizione morale è un campo in piena ebollizione, e negli ultimi 10-15 anni sono stati accumulati una gran quantità di dati pertinenti per la nostra questione.

Il contributo recente più importante che la psicologia ha dato è stato capire il ruolo fondamentale delle emozioni. Fin dal 1700 i filosofi sentimentalisti dell'illuminismo scozzese (Hutcheson, Hume) hanno difeso la tesi che considerare qualcosa immorale non è aver raggiunto certe conclusioni a partire da principi universali, ma più semplicemente associare un'emozione negativa a quell’azione o norma. Sono tutti d’accordo che le emozioni giocano un ruolo, ma normalmente i razionalisti ritenevano che, concedendo un tempo adeguato alla riflessione e in condizioni normali, le giuste emozioni seguissero al riconoscimento di principi universali. L'elemento di universalità nei razionalisti è dato proprio dal fatto che tutti sono in grado di riconoscere gli stessi principi, cioè la morale di base del senso comune. L'elemento relativista del sentimentalismo sta nel fatto che le emozioni sono solo di fatto associate a certe norme: in un'altra cultura ci potrebbero essere delle associazioni diverse, a meno che l'essere umano sano non abbia delle tendenze universali ad associare certe emozioni a certe norme. Ora, esperimenti recenti da un lato e una disamina attenta delle nostre conoscenze storiche e antropologiche dall'altro sembrano mettere l'universalista in gravi difficoltà. È oggi abbastanza chiaro che:

  1. la morale è legata a doppio filo alle emozioni
  2. le emozioni non seguono un ragionamento, ma i ragionamenti sono solo una razionalizzazione delle emozioni
  3. tranne in alcuni casi, l'associazione delle emozioni alle norme non è universale.

Per quanto riguarda il primo punto, il repertorio di emozioni umane è oggi catalogato in maniera completa nelle sue componenti di base, grazie tra l'altro a un linguaggio di classificazione di ogni possibile espressione facciale in base alla contrazione dei muscoli del viso. Questo linguaggio è più potente di qualsiasi linguaggio naturale e permette di distinguere in maniera rigorosa sfumature per cui non ci sono nomi correnti. Emerge che il repertorio di emozioni e l'associazione tra risposta cognitivo-fisiologica e espressione facciale è universale nella nostra specie: anche se non tutti si disgustano per le stesse cose, una faccia disgustata è identica in tutto il mondo e immediatamente riconoscibile da moduli appositi nel cervello. In riferimento alla morale, ogni tipologia di norme è associata a emozioni ben precise: per esempio, qualsiasi cosa si moralizzi come impura, suscita disgusto (e vergogna dopo una violazione), violazioni di regole gerarchiche (quali che siano) da parte di terzi suscitano disprezzo, la violenza di terzi suscita rabbia e la propria senso di colpa. Riguardo all'associazione stretta tra giudizi morali e emozioni, lesioni traumatiche, congenite (psicopatici), o indotte temporaneamente per via sperimentale (stimolazione magnetica transcraniale) alle aree del cervello che gestiscono le emozioni inibiscono sistematicamente la capacità di giudizio morale. Manipolazioni tese ad aumentare o diminuire l'intensità di emozioni specifiche alterano il giudizio morale nell'area di competenza dell'emozione. Per esempio, dopo una commedia molto divertente (intesa smorzare il potenziale di rabbia) si giudica più moralmente accettabile la violenza vista in filmati o raccontata. Se uno si è lavato le mani (atto che dovrebbe smorzare il potenziale di disgusto) giudica più accettabili delle pratiche 'impure'. Inversamente, il disgusto indotto via ipnosi o svolgendo l'esperimento in un ufficio sporco fa giudicare problematiche cose normalmente neutre da un punto di vista morale.

Quanto al secondo punto, è chiaro che le ragioni date per l'approvazione di norme morali sono delle razionalizzazioni. Haidt ha costruito una carriera con esperimenti in cui leggeva al partecipante una storia in cui un fratello e una sorella fanno sesso in vacanza, consenzienti e in condizione igieniche perfette e con l’uso di contraccettivi, oppure in cui un ragazzo si masturba con una carcassa di pollo, sempre con fattori di contorno che rendono le condizioni igieniche impeccabili. Le storie sono costruite apposta per smontare tutte le razionalizzazioni immaginabili, perché nessuno si fa male, non ci sono conseguenze, tutti sono consenzienti, ecc. Dopo la lettura, lo sperimentatore chiede di esprimere un giudizio morale e di motivarlo, facendo poi l'avvocato del diavolo e smontando le razionalizzazioni. Il risultato è che il partecipante, esasperato, arriva quasi sempre ad ammettere che non ha la minima idea di perché, ma l'atto è da condannare, e ovviamente non cambia idea.

Per il terzo punto, è vero che il fatto che l'associazione emotiva a una norma sia necessaria e sufficiente per renderla 'morale' nella psicologia di un individuo non esclude di per sé l'universalità. Ci potrebbero essere delle strutture cognitive universali che fanno associare le stesse emozioni alle stesse norme. Due considerazioni rendono questa prospettiva almeno plausibile: primo, ispirati dai risultati di Chomsky e della sua scuola nella scoperta di una grammatica profonda e universale del linguaggio, vari ricercatori sono alla ricerca di una grammatica profonda universale dei vari codici morali. Come nel caso del linguaggio, si potrebbe trattare di qualcosa di implicito, profondo e inaccessibile alla riflessione, più profondo ancora delle intuizioni del senso comune, le quali in fin dei conti possono variare (dopotutto, gli utilitaristi che pensano si possa uccidere una persona per salvarne tre esistono), anche se questa variazione e l’opinione della minoranza sono state sempre spiegate come confusione o indottrinamento. Questi principi profondi sarebbero invece strettamente universali: nel caso del linguaggio, non c’è una sola lingua naturale che non rispetti le regole di Chomsky. Secondo, sappiamo già che certe associazioni universali di emozioni esistono: prima di essere cooptato dalla cognizione morale nell'uomo, il disgusto è evoluto in varie specie per tenere alla larga da agenti infettivi e rischi di contaminazione, per questo un'avversione al vomito e agli escrementi è universale. Queste due osservazioni non sono sufficienti per salvare l'universalista: il problema non è solo trovare un elemento cognitivo universale qualunque – dopotutto, siamo membri della stessa specie, e varie strutture universali ci saranno – ma un elemento in grado di fondare qualcosa di sostanziale come la morale del senso comune, e di spiegare l'errore di chi non è d'accordo come una forma di confusione.

Ora, quanto alla grammatica universale, la pista non pare promettente. Anche se esiste, proprio perché sarebbe universalmente rispettata, profonda, formale e non sufficientemente sostanziale, non può spiegare l'errore di chi pensa che si può uccidere una persona per salvarne tre: visto che gli utilitaristi esistono e non son tutti malati o anomali, questo prova che l'utilitarismo è compatibile con la grammatica universale, che è il contrario di quello che il difensore universalista della morale del senso comune voleva dimostrare. In altri termini, una grammatica morale con contenuti sufficientemente informativi sembra non esistere, e una grammatica profonda e solo formale non serve comunque all'universalista. Un tentativo di replica frequente è quello di dire che principi universali sostanziali esistono e le violazioni sono solo apparenti. Per esempio, torturare gli animali per gioco non sarebbe una violazione del rigetto di ogni violenza gratuita, perché magari chi lo fa pensa che gli animali non soffrono veramente e non hanno un'anima come gli uomini. Una serie di esperimenti condotti apposta per testare la validità di questa risposta l'ha scartata nella maggior parte dei casi. Ai bambini Hopi che torturano crudelmente gli uccellini è stato chiesto se i poveri animali soffrono: il risultato di un lungo accertamento di cosa pensassero è che gli sventurati uccellini soffrono come e semmai più che gli uomini! Quanto all'universalità delle nostre reazioni di disgusto di fronte a escrementi, malformazioni o vomito, uno studio antropologico attento della varietà di tabù alimentari, sessuali, sistemi gerarchici e sistemi distributivi della ricchezza nella storia conosciuta ci costringe da solo a concludere che nel passaggio da funzioni a-morali all'integrazione nella cognizione morale, la caratteristica delle emozioni di avere un oggetto universalmente assegnato è stata evidentemente persa.

L'universalismo morale, realista o quasi-realista, è insostenibile. Bisognerà esplorare le strade che restano aperte in relazione alla fondazione della morale e dei valori transumanisti in particolare.

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Note

  • 1 Per chi voglia approfondire, in filosofia morale il dibattito sul nesso tra riconoscimento delle norme morali e motivazione pratica all’azione è noto come dibattito internalismo/esternalismo della motivazione. Il nome si riferisce alla possibilità di un nesso ’interno’ o concettuale tra comprensione e motivazione, nel senso che la prima implicherebbe la seconda.
  • 2 Disciplina seria chiamata anche astrobiologia e che sviluppa ipotesi rigorose e informate su come potrebbe essere la vita extraterrestre, inclusi esseri intelligenti.
  • 3 Un concetto morale thick non è semplicemente formale e procedurale come 'giusto', ma sostanziale e include certi valori, come 'coraggioso' o 'saggio'.

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