Una rovina perpetua

Autore: Emmanuele Pilia

da: Divenire 4, Genealogia ()

Bibliografia

Nel capitolo introduttivo al suo La nuova Babilonia: il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Leonardo Lippolis tiene a riportare un lungo brano, tratto dalla Genesi, riguardante il mito della Torre di Babele, ovvero il tentativo di ricostruire, contro la volontà di Dio, l’asse tra cielo e terra spezzato dal peccato originale. Da sempre simbolo dell’arroganza dell’uomo, usato con Sodoma e Gomorra come metafora della città da rinnegare, la Torre di Babele sarà anche assunta, nelle diverse sfaccettature con cui ci si è riferiti ad essa, a simbolo della diversità umana, espressione di quel magma informe di cui la civiltà è formata. In effetti la punizione che il Signore impartì a quel sol popolo, unito da un sol linguaggio, non fu la distruzione della Torre, il quale crollo è invece la conseguenza dell’abbandono della stessa, ma il dissolvimento di quell’unità in una diversità che si disperse in breve tempo. 1 Paradossalmente, l’inizio della civiltà coincide con la creazione della prima, maestosa rovina che la storia ricordi, e questo non solo nella tradizione giudaico-cristiana.

Già nella Grecia dell’età arcaica, le mitiche rovine di Micene e Tirinto suscitavano tanta meraviglia che ad esse venivano conferite origini celesti. La memoria di tale incredibile rinvenimento informerà per intero la tradizione ellenica, di cui Pausania il Periegeta ci ha offerto una preziosa testimonianza, attribuendo all’opera dei Ciclopi le mura difensive delle città, «con massi non lavorati, […] di dimensioni tali che due buoi non riuscirebbero a spostarne il più piccolo» (in Ortolani 2006, p. 10). Un rapporto, quello tra architettura e rimanenze di un passato reso mitico dal proprio cadavere, che si rende manifesto con lo sviluppo dell’Umanesimo e con il progetto di restauro intrapreso dagli intellettuali italiani. L’architetto rinascimentale infatti «interagisce con le preesistenze romane facendosene interprete e costruendo le basi per una nuova architettura. I disegni dell’Antico prodotti nel Rinascimento sono già “disegni di progetto”, più che rilievi, dal momento che l’attenzione rivolta all’architettura romana è finalizzata alla sua padronanza in termini partecipativamente compositivi più che conoscitivi» (Quici 2004, p.17). Pionieri di questa tendenza, Brunelleschi e Leon Battista Alberti finiranno letteralmente per appassionarsi allo studio dei ruderi imperiali, muovendo il loro sguardo da due punti di vista opposti. Se il primo infatti si accostò alle grandiose strutture romane mosso da stupore e curiosità verso una tecnologia così raffinata, lo spirito con cui l’Alberti si dedicò allo studio delle rovine dell’antichità classica, era quello di chi si considerava come «il primo teorico della nuova arte umanistica e dallo studio delle rovine classiche si propose di desumere quelle che egli considerava le leggi immutabili che governano le arti» (Murray 1998, p. 48). L’onda lunga delle ricerche e degli interessi dei padri del Rinascimento italiano, si sentirà sino al tardo Barocco, quando, nonostante la penuria di incarichi ufficiali a Roma, artisti e studiosi da tutta Europa continuarono a precipitarsi nella capitale con l’intento di studiare la classicità romana direttamente dai suoi resti. Di quest’esperienza, il lavoro di Giovan Battisti Piranesi rappresenta il culmine di un sentire rinnovato rispetto alla classicità rinascimentale, dove il rudere non è solo ricercato e studiato, ma è letteralmente oggetto di una messa in scena. Messa in scena in cui lo statuto dell’attualità viene elevato, attraverso la consacrazione della rovina, allo stesso livello del glorioso passato ispiratore. Sicuramente le stampe di Piranesi hanno un intento documentaristico, ma la drammaticità spaziale delle sue Vedute fanno si che tale fine sia contaminato con la volontà di dare un sapore epico alla realtà che lo circonda, mescolando così due tradizioni che «sembrano escludersi a vicenda; quella della scena barocca con quella della rappresentazione topografica di un paesaggio architettonico» (Wittkower 1972 p. 313).

Una pura bellezza

Vi è di sicuro un evidente scollamento tra la rovina biblica e quella, per così dire, storica. Se è vero infatti che da un lato l’immagine della rovina sia legata ad una decadenza e depravazione punibile nel più duro dei modi, dall’altra viene fatta emergere come testimonianza di enormi energie ormai dissipate. Un interessante arricchimento al binomio ora accennato è proposto da Franco Purini nel suo Comporre l’Architettura, ove il fascino enigmatico della rovina muove dalla caduta stessa dell’architettura, intesa, alla maniera di Vitruvio, come quel luogo nel quale si accentrano utilitas, firmitas, venustas, utilità, solidità, bellezza 2 . Caduti i primi due termini dell’equazione, ciò che resta è una bellezza pura, incontaminata da altri usi che non sia la propria riflessione del tempo. L’architettura occidentale d’altronde «si è alimentata a lungo di una meditazione sul rudere come luogo di confronto tra la nascita e la morte del manufatto» (Purini 2000, p. X), tanto che è possibile affermare serenamente che è l’eredità della rovi-na a formare l’identità dell’Europa. Ma se nelle esperienze di cui si è parlato continua a permanere il fantasma della firmitas e dell’utilitas 3 , sarà solo con il Romanticismo che si instaurerà il dominio di una venustas pura, forte di una visione dell’arte che si offre come puro piacere e puro godimento. La rovina romantica compare in frammenti pittorici difficilmente riconoscibili, con i suoi tratti deliberatamente sfumati, scevri di qualsivoglia connotazione simbolica. La componente archeologica e conoscitiva, tipica del Rinascimento e del Barocco, viene soppressa, o comunque perde la propria rilevanza, per mostrarsi unicamente come immagine idealizzata: il frammento di rudere romantico è un atto della mente tendente a raccogliersi come «espressione di un significato dal punto di vista psicologico» (Appiano 1999, p. 52), manifestandosi come «presenze inconsistenti ed insieme concrete, eteree e materiche allo stesso tempo» (p. 53). L’idea romantica prevede che la rovina, tornata ormai al dominio della terra alla quale ogni cosa è destinata a tornare, aggiungano alla natura «qualcosa che non appartiene più alla storia, ma che resta temporale» (Augé 2004, p. 35). Questo arricchimento della natura, dona ad essa una sorta di tempo puro, un tempo senza storia in cui «solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione» (p. 38). Tale tempo però non abolisce mai completamente il discorso storico, in un equilibrio in cui è proprio la presenza stessa del frammento di rudere che impedisce paradossalmente al paesaggio il dissolversi in una indeterminatezza di una natura senza uomini. Equilibrio che verrà spezzato con lo sviluppo e la diffusione delle scuole di pensiero di matrice positivista, che vedrà nella funzione una priorità da perseguire. In quest’ottica ovviamente, un ente che si presenta come privo di struttura o funzione non può che essere considerato inutile. Eccezion fatta per quei casi rari e selezionati, dove il simbolo è talmente carico di significati da portare nella propria sola presenza una funzione propagandistica e politica. È il caso della Roma imperiale riscoperta dal fascismo, il quale, bisognoso di fomentare una qualche identità, avviò una serie di progetti archeologici nell’area dei fori imperiali. Lo scopo in questo caso è chiaro ed anche troppo noto: appropriarsi di una immagine per impadronirsi della sua identità, tramite un processo di mitopoiesi che ha ben poco di alchemico. Anzi: sarà anticipatore di una tendenza che avrà il suo pieno sviluppo nella metà del novecento, ossia quello del predominio della gestione dell’immagine della rovina sulla rovina stessa.

Il dibattito sulla ricostruzione delle Twin Towers, aperto mentre l’area era ancora ricoperta di detriti, è in tal senso emblematico: vi è una certa ironia nel fatto che il progetto di costruzione sia stato affidato ad un architetto come Daniel Libeskind, che ha più volte guardato alle rovine lasciate dai più incomprensibili drammi del secolo passato, facendo sì che in luogo delle carcasse di acciaio e cemento, alle vere rovine insomma, siano create delle rovine artificiali. 4 Piuttosto coerente per un secolo che privilegia la copia ed il facsimile, e che proprio in questo caso mostra l’emergere di quello che può essere chiamato il paradosso delle rovine. Un paradosso che vede, «proprio nell’ora delle distruzioni più massicce, nell’ora di massima capacità di annientamento» (p. 86), la scomparsa della rovina come realtà e come progetto. D’altronde l’architettura contemporanea non mira all’eternità 5 : essa è prodotta in un presente sostituibile all’infinito, che fa della città attuale un eterno presente, lontano da quel tempo puro prima descritto. Si ripresenta in contesto architettonico, nella scomparsa della rovina, il paradigma della fine della storia 6 , per il quale ogni riflessione possibile sul tempo è esausta sul nascere.

Scarti del consumo

Nella rinuncia al rudere da parte della contemporaneità, molti artisti si sono visti costretti ad interrogarsi sulle uniche permanenze del nostro tempo, ossia sul rifiuto, sulla spazzatura, che proprio per lo statuto inerte in cui si incarna si presenta come unica, ironica possibilità di sospensione del tempo. Lo scarto dopotutto ha, a partire dal Novecento, una condizione privilegiata rispetto alla maceria, andando di fatto a prendere il proprio posto in quelle immense rovine che sono le discariche. Esterne al campo visivo del consumatore, esse sono in realtà le vere cattedrali del nostro tempo, realizzate come sono dall’intera comunità, pur se inconsapevole. Viene a mente l’atteggiamento degli abitanti di Leonia, città invisibile descritta da Calvino, i quali conducono una vita all’insegna del consumismo più sfrenato: «ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti […]. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, piano-forti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove» (Calvino 1972, p. 119). Montagne di rifiuti, sempre più alte, sempre più compatte, circondano la città di Leonia, formando nel suo sviluppo una stratigrafia temporale delle abitudini di questa singolare popolazione.

Nella sottrazione degli scarti al proprio degrado si verifica quindi tale sospensione, tale congelamento del tempo, certamente diverso dal tempo puro descritto da Augé, ma più consono al confronto con un certo velleitarismo romantico. Interessante interprete di questa concezione è Jean Tinguerly, impegnato da anni nella produzione di strani automi assemblati con rifiuti tra i più impensabili. Decontestualizzati in un organismo ben più complesso, questi ammassi di rottami sono programmati per compiere movimenti che conducono all’autodistruzione. Suicidandosi, le macchine si sottraggono all’usura, muovendo se stesse, rapidamente e polemicamente, alla rovina. Vi è una chiara denuncia di un capitalismo incapace di fare altro che procedere sordamente alla trasformazione ed espulsione di materia dal proprio sistema, cieco alla minaccia di entropia. Dopotutto, «la nostra è una società in cui si tende con incredibile e spaventosa disinvoltura a rottamare, gettare, eliminare, dimenticare, disperdere, riciclare tutto ciò che non è più nuovo» (Appiano 1999, p. 148). In tale società è facile comprendere come alcun rudere può divenire il motore della storia, se non la rovina della società stessa. Il fatto che la letteratura postmoderna abbia prodotto fiumi d’inchiostro nel tentativo di celebrare tale caduta, impegnata d’altro canto alla celebrazione del più sfrenato edonismo, non è un caso. Lo spettacolo, cui la società occidentale si è prestata, è infatti una dimostrazione di come il rapporto tra struttura, utilitarismo ed edonismo abbia perso il proprio equilibrio a favore di questo surrogato della venustas vitruviana: l’immagine. Le macerie causate dal crollo delle ideologie, si sono quindi fossilizzate nella rovina umana odierna, vicina tanto al tempo puro, quanto alla fine di tale tempo. Fine del tempo descritta, prima che da Fukuyama, da Debord, che proprio ne La società dello spettacolo ricalca con lucidità agghiacciante il percorso di sostituzione della immagine al reale. È evidente come l’architettura non abbia ancora dato risposte convincenti a questo regime di storicità, se non nelle sue manifestazioni dove essa è per l’appunto assente, dove essa è pura immagine. D’altronde non potrebbe essere altrimenti: la rovina dell’attuale umanità non potrà che essere l’oggetto della riflessione di una società rinata, di una postumanità, la quale, osservando l’attuale caduta di firmitas ed utilitas, ne ammirerà la splendente bellezza.

Una società rinata

Ma su quali terreni sarà possibile fondare le basi di una società rinata? Questa sarà una delle principali domande a cui, l’Internazionale Lettrista prima, l’Internazionale Situazionista poi, dedicheranno un dibattito ventennale dove, in più di un’occasione, il discorso incentrerà la propria tesi facendo perno sul mito della Torre di Babele. Debord stesso userà più volte tale immagine, tanto che sentirà il bisogno di inserire, a circa due terzi della trasposizione cinematografica de La società dello spettacolo, una riproduzione della Piccola Torre di Babele dipinta da Bruegel il vecchio. Sul lungo fermo-immagine 7 , Debord recita un brano del suo testo, nel quale viene ricordato che «[…] la rivoluzione proletaria è questa critica della geografia umana attraverso la quale gli individui e le comunità devono costruire gli avvenimenti corrispondenti all’appropriazione, non più soltanto del lavoro, ma della loro totalità». Riappropriazione della storia che può avvenire quindi solo tramite l’adunata di una nuova società attorno la costruzione di una nuova Babele, possibilità offerta dalla sopraggiunta morte di un dio che già a suo tempo portò in rovina lo sforzo dell’umanità riunita.

Dalle macerie imminenti della società capitalista e dello spettacolo 8 , ora che i mezzi materiali potrebbero risolvere, per lo meno in via teorica, il problema della sopravvivenza, sarebbe sorta la costruzione di nuove sovrastrutture di pensiero, di un nuovo senso da dare al progresso. «Era insomma giunto il tempo di provare a costruire l’edificio di una nuova civiltà, la Nuova Babilonia situazionista» (Lippolis 2007, p. 11). Sarà Constant Nieuwenhuys ad occuparsi del progetto architettonico di quella che sarà poi chiamata New Babylon: «un’infinita Torre di Babele orizzontale, uno spazio di tutti gli uomini e di tutte le culture. Una Babele che non mira a conquistare il cielo, ma avvolgere la Terra» (Careri 2001, p. 11), un nuovo mondo costruito dall’intera umanità creatrice, liberata dalla costrizione del lavoro alienante imposto dal capitalismo.

Contrario all’utilitarismo commerciale dell’architettura razionalista ed all’utilizzo alienante della macchina, entrambi dirottati verso il risparmio economico attraverso la standardizzazione, Constant vorrà sfruttare le macchine ed i mezzi più avanzati di cui dispone per la liberazione ed il rinnovamento costante dell’immaginazione. I situazionisti si dichiareranno quindi «convinti che il dominio razionale dei mezzi offerti dalla modernità possa permettere una costruzione della vita radicalmente alternativa a quella alienata organizzata dall’homo oeconomicus neocapitalista» (Constant 1958, in Lippolis 2006, p. 144), prefiggendosi di determinare una «partecipazione immediata ad un’abbondanza di passioni della vita». Infatti, lungi dall’incarnare un atteggiamento neofuturista, secondo il quale il progresso porterebbe automaticamente alla liberazione dell’uomo dal gioco delle necessità materiali, i situazionisti sono ben consci che il capitalismo della società dello spettacolo tenderà a riappropriarsi del tempo liberato dall’automazione. Tempo che così verrà riempito tramite «l’abbruttimento obbligatorio degli stadi e della televisione», e non «da una creatività che nel frattempo non è stata coltivata» (Lippolis 2006, p. 146). Viene attribuita al tempo libero, o meglio: al tempo liberato, una rilevanza inedita: esso potrà essere lo strumento del capitalismo per portare a compimento il proprio processo totalitario, oppure la base su cui si può erigere la più grandiosa costruzione culturale che si sia mai creata. Unica strada percorribile al fine di evitare l’asservimento totale della vita dell’uomo è quella della scoperta di nuovi desideri. «Ma questi nuovi desideri non si manifestano da soli, nel quadro oppressivo del vecchio mondo. È necessaria un’azione comune per scoprirli, manifestarli, realizzarli» (Jorn 1960, in Lippolis, p. 147). Già Gilles Ivain, alias Chtcheglov Ivan, aveva previsto nel 1953 nel suo Formulario per un nuovo urbanismo 9 , significativamente ripubblicato da Debord nel 1958, nel primo numero dell’Internationale Situationniste, come si sarebbe prefigurata la prima città situazionista: «Questa prima città sperimentale vivrebbe molto di un turismo tollerato e controllato. Le prossime attività e produzioni d’avanguardia vi si concentrerebbero spontaneamente. Nel giro di qualche anno diventerebbe la capitale intellettuale del mondo, e verrebbe ricono-sciuta dappertutto come tale» (Lippolis 2006, 145).

Occorre qui una precisazione: la città situazionista non si sarebbe prefigurata tramite uno scenario postmoderno di città del consumo e dello svago, di una Las Vegas facilmente assimilabile dal sistema capitalista. Al contrario, esse «avrebbero dovuto organizzare la messa in scena architettonica del mondo alla rovescia come avveniva nel carnevale medievale, momento e situazione della riappropriazione della storia da parte delle persone, contro i ruoli sociali e le costrizioni materiali» (Lippolis 2006, p. 165). L’uomo che dovesse visitare una di queste città, ripartirebbe da essa con un senso della vita rinnovato e contagioso, pronto ad invadere la vita quotidiana collettiva. A quel punto comincerebbe spontaneamente a costruirsi da sé il proprio ambiente di vita, replicando in maniera personale la città che l’ha trasformato.

Pensare però tale città situazionista come memore di un medioevo, effimero nella forma, è fuorviante: il recupero di un uso giocoso della vita, può e deve avvenire tramite i mezzi offerti dalla modernità. Da qui il progetto di una città tecnologica al servizio di un’umanità ludica e nomade, New Babylon, così battezzata da Debord proprio ad indicare il perpetuo crollo di una società in continua rivoluzione.

Quale abbozzo di civiltà?

Se la civiltà babilonese vedrà il suo monumento crollare a causa del suo abbandono, il crollo di New Babylon sarà sistematico e cosciente: i neo-babilonesi infatti, secondo l’idea di Constant, vorranno fare e disfare il loro habitat spinti unicamente dalle proprie pulsioni e dai propri desideri, in un azione comunitaria descritta più volte da Debord con il termine urbanismo unitario, definito come «la teoria dell’impiego di insieme delle arti e delle tecniche che concorrono alla costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento». New Babylon si presenterebbe così come un’immensa rovina tecnologica in atto, apprezzabile unicamente per l’aderenza ai desideri dei suoi creatori, la cui realizzazione non può che essere affidata ad una civiltà radicalmente rinnovata, per il quale i situazionisti sentono il bisogno di teorizzare addirittura una nuova umanità 10 . Non era certo fuori luogo se già nel 1954 Gilles Ivain ricordava che per i situazionisti non è concesso parlare di una nuova architettura «se essa non esprime una nuova civiltà […]. Ciascuno ha dunque il diritto di domandarsi su quale abbozzo di civiltà vogliamo fondare un’architettura» (Chtcheglov 2006, p. 8). Abbozzo di civiltà il cui embrione, concepito nel 1938 da Johan Huizinga, non può che essere l’Homo ludens, prossimo stadio del percorso evolutivo dell’uomo.

La ripresa cosciente del processo di ominazione sembra per i situazionisti una tappa obbligatoria: le possibilità che New Babylon offrirebbe all’umanità, la completa dedizione ad attività ludiche o ricreatrici, non possono manifestarsi nell’attuale condizione umana, vincolata ad una aggressività a cui difficilmente riuscirebbe a sottrarsi, come già dimostrato dagli sciagurati esperimenti sociali portati avanti in altri secoli. Prototipo di neo-babilonese, sarà lo stesso progettista di New Babylon ad indicare nell’Homo ludens un passaggio obbligato per il manifestarsi di una civiltà liberata: egli infatti «vorrà lui stesso trasformare e ricreare questo ambiente e questo mondo secondo i suoi bisogni. L’esplorazione e la creazione dell’ambiente verranno allora a coincidere perché l’Homo ludens, creando il suo territorio da esplorare, si occuperà di esplorare la propria creazione» (in Careri 2001, p. 36). Ma la comparsa dell’Homo ludens non può essere pensata senza immaginare un precedente intervento rivoluzionario, ossia la sottrazione della macchina al sistema capitalistico, con un conseguente asservimento della stessa alla piena soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo. L’Homo ludens sarà infatti libero di costruire la realtà che desidera, non più assillato dalla lotta per la sopravvivenza. «Libero di andare dove vuole quando vuole […] l’Homo Ludens esigerà in primo luogo ciò che corrisponderà al suo bisogno di gioco, di avventura, di mobilità e tutte le condizioni che gli facilitano la libera creazione della sua propria vita. Fino ad ora, la principale attività dell’uomo è stata l’esplorazione del suo ambiente naturale. L’Homo ludens vorrà trasformare, ricreare questo ambiente, questo mondo, secondo i suoi propri bisogni. […] Si assisterà così a un processo ininterrotto di creazione e ricreazione, sostenuto da una creatività generalizzata che si manifesterà in tutti i campi di attività» (Lippoli 2007, p. 282). Creazione in cui l’atto dell’innalzamento e del disfacimento collidono entrambi nel manifestarsi in un’architettura nella quale utilitas e firmitas perdono il loro valore, così come accade nella rovina, lasciando così strada, nel libero gioco delle passioni, al dominio di una pura venustas.

Bibliografia

  • AA.VV., La Bibbia concordata. Antico Testamento, Garzanti, Milano 1982.
  • Appiano Ave, Estetica del rottame: consumo del mito e miti del consumo nell’arte, Meltemi editore, Roma 1999.
  • Augé Marc, Rovine e Macerie: il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
  • Campa Riccardo, Etica della scienza pura. Un percorso storico e critico, Sestante Edizioni, Bergamo 2007.
  • Calvino Italo, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
  • Careri Francesco, New Babylon, Una Citta Nomade, Testo & Immagine, Torino 2001.
  • Chtcheglov Ivan, Écrits retrouvés, Allia, Parigi 2006.
  • Debord Guy, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2001.
  • Fukuyama Francis, La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2003.
  • Lippolis Leonardo, La nuova Babilonia: il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa & Nolan, Milano 2007.
  • Ortolani Giorgio, “L’architettura Greca”, in Bozzoni C., Franchetti Pardo V., Ortolani G., Viscogliosi A., L’architettura del mondo antico, Editore Laterza, Bari 2006.
  • Pilia Emmanuele, “La rovina dell’opera”, in Luca Masala (a cura di), Orizzonti di ricerca: i problemi del nostro tempo, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2009.
  • Murray Peter, L’architettura del Rinascimento italiano, Editore Laterza, Bari 1998.
  • Purini Franco, Comporre l’architettura, Editore Laterza, Bari 2000.
  • Quici Fabio, Tracciati d’invenzione. Euristica e disegno di architettura, Utet Università, Torino 2004.
  • Wittkower Rudolf, Arte ed architettura in Italia, 1600-1750, Giulio Einaudi editore, Torino 1972.

Sitografia

Note

  • 1 Da La Bibbia Concordata, Antico Testamento, capitolo 11, La torre di Babele, versetti dal 4 al 7: «Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra”. Il SIGNORE discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano. Il SIGNORE disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l’uno non capisca la lingua dell’altro!”».
  • 2 Purini Franco, Comporre l’architettura, Editore Laterza, Bari 2000, p. 60.
  • 3 Nonostante sia possibile trovare un predominio della componente estetica su quella funzionale e strutturale, di esse se ne continua ad avere traccia. Come si è visto, se durante la nascita della civiltà greca alle rovine micenee furono assegnati ruoli rituali, così come in parte nel Rinascimento di Leon Battista Alberti, in Brunelleschi è l’ammirazione per ciò che della firmitas resta di emerso a suscitare interesse. Nella scena barocca è invece il ruolo celebrativo e propagandistico, che si manifesta nell’immagine, ad essere peculiare.
  • 4 Mi sento qui in dovere di porre una precisazione: se è vero che il tono dell’affermazione è volutamente polemico, questa lo è soltanto verso l’operazione di marketing territoriale messa in campo, e non certo verso il progetto del nuovo World Trade Center dell’architetto polacco.
  • 5 Ed occorre aggiungere che i rimpianti verso edifici destinati ad essere tramandati di generazione in generazione appaiono grotteschi di fronte agli sviluppi storici.
  • 6 Rimando qui al saggio di Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui in sintesi viene sostenuta la tesi secondo la quale proprio la modernità che ha permesso l’emergere delle liberal-democrazie, a breve creerà le condizioni per cui verrà inaugurato un nuovo regime di storicità nel quale l’appiattimento delle differenze etniche, culturali e linguistiche, impediranno un proseguire lineare della storia. Ovviamente, di risposta, si può affermare che «dalla prospettiva post-moderna, appare chiaro che, finché ci sarà intelligenza nell’universo, l’universo avrà senso» (Campa 2007, 407)
  • 7 Guy Debord utilizzava molto volentieri espedienti simili, spesso sostituendo uno schermo bianco o nero alle immagini. Non si può non citare il suo primo lungometraggio, Hurlements en faveur de Sade, del 1952, non-film in cui lunghe pause su schermo nero intervallano frammenti di dialoghi su sfondo bianco. È facile dedurre come tale stratagemma denunci una ripugnanza verso l’aggressività e l’alienazione dell’immagine.
  • 8 Nella primavera del ‘54, Debord affermerà che: «Le restrizioni economiche sono comunque destinate ad essere spazzate via dall’accordo di tutti gli uomini» (in Lippolis 2007, p. 82).
  • 9 Il Formulario per un nuovo urbanismo di Gille Ivain sarà significativamente ripubblicato da Debord nel 1958, nel primo numero dell’Internationale Situationniste, bollettino informativo sulle attività dell’Internazionale Situazionista.
  • 10 A manifestare questa esigenza, sarà lo stesso Debord, che nel 1954 affermerà che: «È giunto il momento di costruire una nuova condizione umana. Le restrizioni economiche sono comunque destinate ad essere spazzate via dall’accordo di tutti gli uomini. I problemi di cui ancora siamo obbligati a occuparci verranno superati, assieme alle contraddizioni odierne, nel momento in cui i miti antichi perderanno la loro forza e noi ne vivremo di più violenti» (Lippolis 2007, p. 82).