Futurismo, politica e Politica. Recensione di: La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica

Autore: Mafalda Grandi

da: Divenire 3, Libreria ()

Emilio Gentile,

La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica,

Laterza,

Bari 2009, pp. 147.

Dall’autore di Le religioni della politica ci si poteva aspettare decisamente di più in un libro sulla "sfida alle stelle" futurista.

Le smilze centrotrenta pagine di testo dell’ultimo saggio di Emilio Gentile, invece, potranno costituire per qualcuno un’introduzione all’argomento, sarebbero indubbiamente un’ottima tesi di laurea, ma difficilmente possono soddisfare chi vi cercasse l’opera che ancora manca sulla filosofia “politica” del futurismo. L’impressione è anzi quella di trovarsi di fronte ad una speculazione editoriale con cui Laterza ha evidentemente deciso di attingere alla grande competenza di uno dei maggiori storici della prima metà del novecento italiano e dei movimenti rivoluzionari europei tra le due guerre per farsi produrre un compitino di facile lettura, e preparato in tutta fretta, per l’occasione del centenario del primo manifesto marinettiano.

Poco o pochissimo offre in particolare il testo che possa essere di spunto sulle possibili declinazioni politiche contemporanee della riflessione “sulla tecnica e sul postumano” cui è intitolata questa rivista, benché sia espressamente dedicato «al primo movimento artistico del Novecento che proponeva una rivoluzione antropologica per creare l’uomo della modernità, identificata con il dominio della macchina e della tecnica, le possenti forze nuove sprigionate dal potere creativo dell’uomo, destinate a cambiare rapidamente l’uomo stesso, fino a generare una sorta di antropoide meccanico, essere disumano e sovrumano insieme, partorito dalla simbiosi fra l’uomo e la macchina». Infatti, scrive sempre Gentile nell’introduzione al libro «l’uomo nuovo vagheggiato dal futurismo era una creatura primordiale, animata da istinti violenti di conquista e di dominio, avidamente disposta a vivere nuove esperienze, a sperimentare nuove forme di cultura, arte e poesia, a dominare la natura trasformandola incessantemente, e trasformando con essa l’essere umano».

Lo svolgimento seguente è però principalmente una cronaca dell’azione politica futurista sino al 1920, relativamente ricca di aneddoti, cenni biografici soprattutto su Marinetti, analisi delle relazioni tra il movimento e gli eventi contemporanei, tra cui in particolare la guerra, la rivoluzione russa, l’arditismo, il dannunzianesimo e il fascismo, ma lascia deluso chi si aspettava un approfondimento critico del come nella visione del mondo futurista la rottura antropologica preconizzata ed apertamente perseguita si articolasse in un programma di trasformazione del sistema sociale, politico ed economico, in particolare attraverso le leve metapolitiche di una ricostruzione comunitaria intorno a valori nuovi e radicalmente postumanisti. Con questo, anche il rapporto critico con il fascismo o il fiumanesimo si riduce ad una storia di episodi, rapporti tra personalità, divergenze programmatiche, sviluppi tattici; e le successive fondamentali pubblicazioni del Manifesto del partito futurista, di Democrazia futurista o di Al di là del comunismo sono solo tappe o svolte nella narrazione, il cui contenuto specifico – dal feroce anti-utopismo al visionarismo, dal libertarismo al collettivismo, dal comunitarismo all’antiegualitarismo all’anti-centralismo (interessante in un movimento accentuatamente nazionalista) ad un dichiarato e poco considerato machiavellismo (la “duttilità” indicata come metodo principe del futurismo politico) – è appena accennato e non indagato nel suo significato profondo, né nel suo coniugarsi con il ricorso alla rivoluzione tecnica dei modi di vita e dei sistemi di produzione. Parimenti, se Gentile dà riscontro all’interesse futurista per la rivoluzione russa, omette in pratica di trattare proiezione ed influenza internazionale del futurismo e il rapporto tra l’accanito “italianismo” dell’intera classe dirigente futurista e l’internazionalità essenziale del movimento, che si fa araldo di una rivoluzione planetaria. Così come perde di vista la continuità di un impegno politico e metapolitico “con mezzi diversi” cui in fondo il futurismo italiano non rinuncerà mai almeno sino agli anni cinquanta, salvo poi rinascere oggi nelle forme più radicali del transumanismo tecnologico e filosofico contemporaneo.

Perciò, più che vertere sulla Grosse Politik futurista, per cui è molto meglio rivolgersi alle fonti, ed agli scritti di Marinetti stesso innanzitutto, il libro si impernia su vicissitudini politicanti che ne hanno coinvolto i principali esponenti italiani, come si dice, “in prima persona”, per un breve lasso di tempo che va dal periodo bellico all’esaurimento della Reggenza del Carnaro.

Tali vicissitudini conservano nondimeno un interesse per chi abbia forse una discreta frequentazione di tali fonti, ma abbia difficoltà a ricollocarle nell’ambito infuocato di un dibattito, uno scontro ed un’evoluzione turbinosa tanto dal punto di vista tecno-economico quanto dal punto di vista politico-culturale quale quella dei primi anni venti europei, in cui la guerra appena conclusa e le sue appendici rivoluzionarie parevano preludere ad un mondo in cui “tutto era possibile”, prima che gli irrigidimenti degli anni trenta preludessero ad una seconda catastrofe europea che ha finito per riportare il nostro orologio mentale indietro, specie dopo la finta e forzata effervescenza dell’epoca della guerra fredda e del sessantotto europeo, di decenni e decenni.

In questi limiti, questo libro una più modesta funzione di quella che pur avrebbe potuto rivestire perciò l’assume, che ne giustifica comunque la lettura. Gentile si occupa dei futuristi in politica, in particolare in Italia e per la durata della vita dell’omonimo partito, e molto limitatamente dei rapporti dei futuristi con la politica (nulla ci viene detto ad esempio dell’azione futurista durante la rivoluzione russa, durante il fascismo, in occasione della mostra futurista in Germania con cui il movimento è andato a spezzare il monopolio di un’estetica neoclassica o folclorica, passatista quanto piccolo-borghese, nell’ufficialità culturale del Terzo Reich).

Però anche in tale più limitata tematica spiccano le linee di vetta, la lungimiranza dell' “irrealismo” apparente di un movimento che davvero si preoccupa della religione e dell’arte della Politica, destinate a lasciare tracce di secoli dietro di sé, e non delle esigenze inerenti all’amministrazione di un potere immediato, se non all’accesso al potere stesso, che troppo spesso rischiano di pregiudicarne significato e portata. L’uscita dal movimento fascista all’atto della sua “svolta a destra”, che nel garantirne un effimero successo ne ipotecherà il futuro e alla fine la stessa identità e percezione storica, prende così ad esemplare pretesto una questione tuttora centrale nella vita politico-culturale del nostro paese, ovvero l’invadente e reazionaria influenza della chiesa cattolica, di cui i Fasci di combattimento significativamente scelgono invece di smettere di occuparsi con il congresso del 1920 e con la loro trasformazione in partito.

Un gesto di coerenza e di elevato valore simbolico, che non solo preluderà ad un pur tardivo tentativo di saldare il futurismo almeno idealmente alla parte migliore del movimento operaio (cfr. Al di là del comunismo) con cui tanta parte dell’ambiente confluito nel fascismo rescinde nel frattempo gli originari legami; ma non impedirà più tardi a Marinetti di continuare la sua azione metapolitica durante tutto l’arco del regime e sino alla sua morte, lasciandogli anzi le mani libere rispetto a questa ed altre pastoie e responsabilità storiche fasciste o antifasciste che certo all’epoca sembrava velleitario rifiutarsi di assumere.