L’avvento del Terzo Uomo: recensione di Dove va la biopolitica?

Autore: Riccardo Campa

da: Divenire 2, Libreria ()

Stefano Vaj (intervista a cura di A. Scianca),

Dove va la biopolitica?.

Settimo Sigillo,

Roma 2008, pp. 64.

La biopolitica è ormai il problema centrale del nostro tempo, anche se una sorta di rimozione collettiva ne ha ostacolato a lungo, e ne continua ad ostacolare, il riconoscimento. Oggi, per l’azione congiunta e opposta di bioluddisti-tradizionisti e postumanisti-transumanisti – alleati oggettivi loro malgrado – il problema è arrivato finalmente all’ordine del giorno nel mondo della politica e della cultura.

Stefano Vaj il problema non lo ha mai rimosso. Se ne occupa almeno dalla fine degli anni Settanta, come saggista e conferenziere, riallacciandosi all’eredità del futurismo e del sovrumanismo europeo. In questo libro-intervista, curato dal giovane filosofo Adriano Scianca, Vaj approfondisce e aggiorna alcuni temi centrali già emersi nel suo libro Biopolitica. Il Nuovo Paradigma (2005).

Tra le tesi difese dall’autore vogliamo riassumere e commentare quelle che ci paiono più interessanti. La prima riguarda la scena politico-culturale, che Vaj illustra attraverso una bella metafora: «immaginiamo tre uomini che si ritrovano improvvisamente gettati su una barca a vela in navigazione. Il primo passa il tempo ad imprecare contro la sorte che li ha fatti ritrovare a bordo, e insiste sull’opportunità di buttarsi a nuoto… Il secondo propone di instaurare una regola per cui sia vietato interferire con la navigazione della barca verso il nulla… ed è principalmente interessato ad accaparrarsi le razioni disponibili e la cuccetta migliore, o al massimo trovare un modo per condividerle equamente in modo da mantenere la pace a bordo. Ciò che invece conta per il terzo è la possibilità di usare la barca per andare dove vuole, imparare a governarla e decidere la rotta da seguire» (Vaj 2008: 7).

Ecco allora un ritratto di tre tipi politico-culturali: il primo è il luddista, il primitivista, il tradizionalista di matrice ecologista o religiosa, che aborre l’idea stessa della barca a vela (la civiltà industriale), e vuole lasciarla, anche se poi raramente lo fa e dunque si rifugia nell’imprecazione e nel lamento. Il secondo è il soggetto maggioritario, che non si pone nemmeno il problema filosofico sul chi siamo e dove andiamo, preoccupandosi solo della piccola manutenzione, della comodità di una vita alla quale ha ormai rinunciato a dare un senso. È il soggetto della grande rimozione freudiana. Il terzo uomo è invece quello che ha finalmente accettato di prendere nelle proprie mani il proprio destino, di diventare ciò che è, di assumere la signoria del pianeta. E per fare questo fino in fondo, deve nietzschanamente portarsi oltre se stesso.

Questa, dice Vaj, è propriamente la posizione transumanista o postumanista. E non c’è dubbio che l’autoevoluzione cosciente sia l’elemento centrale della visione transumanista. Rimangono tuttavia differenze fra i transumanisti sul come si debba governare la nave, per portarla dove si vuole. Nel prosieguo, l’autore chiarisce ulteriori particolari della propria visione, proponendo una lettura della storia ancora una volta basata su una tripartizione, ma questa volta in tipi antropologici.

Il transumanista è in fondo anche il "Terzo uomo", ovvero il soggetto chiamato a farsi signore della rivoluzione biopolitica. Il "terzo uomo" non è dunque una nuova specie o una nuova razza, ma un Idealtypus. Prima di lui hanno calcato le scene del pianeta il “primo uomo”, ovvero «l’uomo delle culture di caccia e raccolta che si autocrea mediante l’adozione del linguaggio e della magia», e il “secondo uomo” «che è invece rappresentato dall’avvento, appunto con la rivoluzione neolitica, dell’agricoltura, della città, della politica, della religione, della divisione del lavoro, delle grandi culture…» (Vaj 2008: 16). In tutti e tre i casi, l’uomo non è mai un dato. È sempre un soggetto che costruisce se stesso, ma lo fa in modi diversi. Nell’ambito di un processo adattivo ed evolutivo, modificando l’ambiente, l’uomo modifica anche se stesso indirettamente. Dunque, l’uomo è sempre e comunque un prodotto artificiale di se stesso. Il terzo uomo, a differenza dei predecessori, è perfettamente cosciente della propria artificialità e quindi assume il controllo dell’intero processo in modo deliberato.

Un’altra tesi piuttosto interessante del libro, che differenzia la visione di Vaj da altri transumanismi, è che a suo parere non è il capitalismo la strada ideale verso il postumano. Che il capitalismo globale produca tecnologia migliore rispetto ad altri assetti politico-economici (comunismo, socialismo, fascismo, nazismo) sarebbe un mito, più che un fatto. «Il missile e il calcolatore digitale, il DNA, l’ereditarietà e le mutazioni, l’atomo e la registrazione, elaborazione automatica ed elaborazione di dati, immagini e suoni, il microscopio e gli agenti patogeni, gli antibiotici e il motore a scoppio e la teoria dei quanti, tutto ciò viene scoperto e inventato in un arco pari alla durata della vita umana, grosso modo dal 1870 al 1950 (…)». Successivamente, abbiamo assistito ad affinamenti, miglioramenti, sottoprodotti di queste grandi scoperte. «Il cittadino occidentale degli anni settanta aveva buone ragioni per ritenere plausibile la scadenza del 1982 per il primo sbarco umano su Marte o per l’accensione della prima centrale a fusione nucleare, ed attraversava l’Atlantico su voli civili supersonici, che da vari anni non sono più disponibili. Gli Stati Uniti rischiano, dopo il definitivo pensionamento dei loro fallimentari Shuttle, di dover ricorrere a tecnologia russa dell’epoca della conquista lunare (!) per trasportare materiale sino al bidone orbitante pomposamente battezzato Stazione Spaziale Internazionale. Le velocità medie dei trasporti per terra, acqua, aria, spazio, sono ormai le stesse da lunghissimo tempo…».

Dunque, l’idea di un progresso che si fa da solo, quasi che non fosse il risultato di deliberate scelte umane, di piani, di politiche, risulta agli occhi di Vaj un’ingenuità. L’attuale assetto politico-economico occidentale, in realtà, sarebbe parassitario rispetto ai precedenti assetti e, finché non si prende atto di questo fatto, non si potrà rilanciare la scalata al cielo annunciata dai futuristi all’inizio del XX secolo.

Un’altra specificità del Vaj-pensiero è che aborre l’idea di “fine della storia”, ovvero l’idea che il mondo possa trovare un assetto stabile e definitivo. Questa speranza è stata cullata per esempio da Francis Fukuyama, che vedeva appunto nella democrazia e nel capitalismo, ormai globalizzati, il traguardo finale della storia umana.

Ora, questo scenario potrebbe anche avverarsi (anche se sembra sempre più dubbio), ma Fukuyama ha scordato che la storia umana non esaurisce la storia. Dopo l’uomo verrà qualcos’altro ed è quantomeno implausibile che il postumano si accontenti delle primitive strutture sociali umane. Così, il pensatore nippo-americano – quando si è reso conto di questo – non ha trovato di meglio che scagliarsi contro l’idea stessa di postumano e di transumanesimo, nei suoi libri e articoli successivi.

Tuttavia, anche alcuni avversari transumanisti di Fukuyama sembrano in fondo credere nella fine della storia, che fanno però coincidere proprio con l’avvento del postumano o della Singolarità. In altre parole, spostano nel futuro l’eventualità del paradiso in Terra, lasciando però intatto lo stesso impianto millenaristico ed escatologico. Tra l’altro, spesso, vedono questo esito scaturire direttamente proprio dal capitalismo globale profetizzato da Fukuyama. Questa è una visione piuttosto popolare nei gruppi transumanisti americani, per ovvie ragioni di retaggio culturale.

La visione di Vaj è invece più "europea", quindi più "tragica", decisamente distante dall’idea del giardino dell’Eden, dall’ipotesi che i problemi umani possano essere risolti una volta per tutte. Governare la nave è un enorme passo avanti rispetto al fatto di essere trascinati nostro malgrado non si sa dove, ma la direzione della nave è una questione ancora aperta e ricca di incognite.

Ma proprio questa incertezza degli esiti è in fondo l’aspetto affascinante della storia. L’uomo, il terzo uomo, decide, sceglie una direzione, si assume la responsabilità del proprio destino, ma il mondo è eternamente in lotta e quindi tutto è destinato a farsi e rifarsi eternamente. Non ci muoviamo verso la sicurezza, il prevedibile, l’omogeneo, ma verso il pericolo, l’incerto, la differenziazione, e ciononostante sentiamo che è giusto muoversi.

Altro non possiamo fare, dal momento che abbiamo preso atto della morte di Dio. Abbiamo preso atto che la nostra vita, la nostra intelligenza, il nostro futuro è nelle nostre mani. Non c’è pastore né provvidenza, c’è solo l’uomo con la propria volontà e la propria conoscenza.

Un’altra peculiarità del pensiero vajano è proprio il rifiuto della tradizione monoteistica giudeocristiana – tradizione asiatica e quindi estranea allo spirito originario indoeuropeo. Il cristianesimo è così visto come punto d’ingresso di una malattia culturale che ha segnato pesantemente la storia dell’Europa. Corollario di questa posizione è che l’Europa può essere se stessa solo riallacciandosi alle sue più autentiche ed autoctone radici pagane, o greco-romano-germaniche. Ovviamente, non può più rinascere il paganesimo, inteso come credenza negli dei dell’Olimpo, ma solo un neopaganesimo che ha ridotto quell’antica religione ad una pura dimensione mitica. E tra i simboli pagani capaci di dare un’anima all’Europa non può che giganteggiare la figura di Prometeo. «Così, più confusamente per i romantici… poi più decisamente con il sovrumanismo, per giungere sino all’archeofuturismo di Faye o al transumanismo, Prometeo diventa una speranza, una promessa, un esempio; anzi, diventa il simbolo stesso del destino tragico dell’uomo e di chi ritiene di incarnarlo» (Vaj 2008: 57).

Che le nostre radici più solide non siano cristiane – come vorrebbe Ratzinger – ma pagane o neopagane, non è una tesi del solo Vaj. Essa è sostenuta anche da pensatori che appartengono a tutt’altra area politico-culturale, come il sociologo Luciano Pellicani, che ha affrontato il problema nel libro Le radici pagane dell’Europa o il filosofo Pietro Rossi, che si è espresso nello scritto L’identità dell’Europa. Pellicani (2008: 162) ricorda che «la vittoria di Atene su Gerusalemme ha portato ad un restringimento della sfera del sacro di tali dimensioni da indurre alcuni studiosi a parlare di fine della Cristianità o, addirittura, di fine del cristianesimo».

E per questo risulta del tutto insensato ed inopportuno richiamarsi alle radici cristiane nella Costituzione europea. Dello stesso avviso Pietro Rossi (2007: 179): «C’è un progetto di Europa che fa leva sul richiamo alle sue “radici”, rintracciate nella cultura antica oppure nella tradizione ebraico-cristiana – e poco importa che Giudaismo e Cristianesimo fossero, in origine, religioni non europee ma medio-orientali, e che si siano inserite nel futuro mondo europeo per tramite del loro nemico, l’impero romano». Il progetto era dunque destinato a fallire in partenza. «Che la richiesta di inserire nel preambolo di un patto fondamentale il riferimento alle "radici" ebraico-cristiane sia stato respinto dalla maggior parte degli stati europei non è affatto casuale; rivela piuttosto la distanza che da secoli separa ormai il Cattolicesimo romano dal resto dell’Europa…».

Ci sono tuttavia differenze. Per Pellicani il recupero della tradizione pagana, contestuale all’esaurirsi dell’egemonia cristiana, inizia a realizzarsi con il Rinascimento e trova pieno compimento nell’Illuminismo. Dunque, anche l’economia di mercato, la rivoluzione scientifica e le rivoluzioni politiche liberali svolgono un ruolo fondamentale in questo cambiamento di paradigma. Anche per Rossi (2007: 181) «l’Europa appare soprattutto figlia della cultura illuministica e delle rivoluzioni che, direttamente o indirettamente, essa ha inspirato».

Vaj vede invece l’Illuminismo come un fenomeno solo problematicamente anti-cristiano. Almeno sotto alcuni aspetti esso rappresenterebbe, secondo la lezione nietzscheana, non tanto una emancipazione, ma piuttosto una versione secolarizzata e persino estremizzata del cristianesimo stesso.

Riguardo a questa interpretazione storica ci sentiamo più in sintonia con Pellicani e Rossi che con Vaj. In fondo, l’idea della morte di Dio affiora innanzitutto negli scritti illuministi e l’idea dell’uomo che prende in mano il proprio destino, modificando anche se stesso a piacimento, è già presente negli scritti di Diderot e Condorcet. È però vero che gli illuministi mostrano un ottimismo e una fede nella ragione che è assente nei pensatori postmoderni. Se questa fede sia retaggio del cristianesimo (pur secolarizzato) o un recupero (demitizzato) della fede pagana nella dea Minerva è un problema storiografico che non pare di facile soluzione. Il dibattito resta pertanto aperto.

È comunque evidente che, con la propria visione, Vaj si pone decisamente nel solco del pensiero postmoderno, dunque critico nei confronti dell’idea moderna e unilineare di progresso che proprio con Condorcet inizia a prendere forma. La stella polare di Vaj è piuttosto l’opera di Nietzsche, che nel tratteggiare la missione dell’oltreuomo si rifà proprio alla metafora della navigazione.

Riportiamo allora in chiusura proprio il passo de La gaia scienza (Nietzsche 1999: 195-6) in cui il futuro dell’uomo è descritto come un mare aperto: «Noi filosofi e spiriti liberi alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, di attesa, finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così aperto».

Bibliografia

  • Fukuyama F. (2002), L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano.
  • Nietzsche F. (1996 [1882]), La gaia scienza, Newton, Roma.
  • Pellicani L. (2008), Le radici pagane dell’Europa, Rubettino, Soveria Mannelli.
  • Rossi P. (2007), L’identità dell’Europa, Il Mulino, Bologna.
  • Vaj S. (2005), Biopolitica, SEB, Milano.
  • Vaj S. (2008), Dove va la biopolitica? Settimo Sigillo, Roma.